giovedì 2 dicembre 2010

Detroit, requiem per la città malata

C'era una volta il sogno americano. E c'era una volta Detroit, la capitale dell'
auto e della musica, che questo sogno incarnava. La chiamavano Motown, oggi è
una città quasi fantasma ed è diventata Deadtown, la città morta. Travolta
dalla ribellione dei neri del 1967, stordita dalla diffusione «politica» della
droga fra i «black» negli Anni Ottanta, annichilita dalla crisi delle quattro
ruote, impoverita dalla bolla immobiliare, strangolata dalla recessione, oggi
ha poco più di 800 mila abitanti: ne aveva due milioni e mezzo solo vent'anni
fa e c'erano progetti per farla crescere fino a cinque. Per l'Fbi è la città
più violenta degli Stati Uniti: 410 omicidi nel 2008, 70 incendi dolosi ogni
sera. Chi può scappa. E sono soprattutto i bianchi: in 800 mila sono andati
via. La middle class sta rintanata nei lindi sobborghi sulle rive dei laghi. I
ricchi hanno scelto Bloomfield o Evergreen, con le ville faraoniche immerse nel
verde e una security implacabile per prevenire brutte sorprese. Così oggi l'81%
della popolazione di Detroit è composto da afroamericani.

Requiem for Detroit?, si domanda il film documentario di Julien Temple
presentato al Tff ed è chiaro sin dal principio che si tratta solo in parte di
un quesito retorico. Una cavalcata di 75 minuti dedicata a quello che Detroit è
stata e a quello che la città Usa oggi è. Con la sua «Eight Mile», la grande
strada a sei corsie (per senso di marcia) che divide Motown fra i quartieri
poveri, sgarrupati e decadenti abitati dai neri e i sobborghi eleganti del lato
Nord. Una ferita, la «8 Mile», cantata nel 2002 da Eminem e che gli valse l'
Oscar per la migliore colonna sonora. Le tre major dell'auto, Gm, Ford e
Chrysler, hanno conservato a Detroit il loro quartier generale, ma hanno
trasferito altrove le fabbriche. Restano stabilimenti di componenti, ma una
sola fabbrica completa di autovetture: quella di Jefferson targata Chrysler,
rivitalizzata dalla cura di Sergio Marchionne. Nel 2008 e 2009 il settore ha
cancellato qualcosa come 200 mila posti di lavoro e il prezzo più alto lo ha
pagato proprio Motown.

Attraversi le grandi strade semideserte con il nome di auto (Cadillac, Dodge,
Pontiac) e vedi aree enormi abbandonate, fabbriche cadenti, palazzoni bruciati,
grandi hotel diroccati, villette sprangate, interi isolati pieni di linde
casette con il cartello «on sale», in vendita, circondati da catapecchie
brulicanti di un'umanità dolente e di personaggi poco raccomandabili. Intere
porzioni del centro abbandonate. La mitica Motown dei locali e delle grandi
etichette jazz e soul spazzata via. A ricordare la gloria passata rimangono in
centro l'Opera House, la Joe Louis Arena per le partite dei Pistols (basket) e
dei Red Wings (hockey) e un campo di baseball che ha visto tempi migliori. Ci
vanno i benestanti, certo, ma arrivano dai sobborghi in macchina e, finiti
spettacoli e partite, subito via tutti a casa. Di notte a piedi non va nessuno:
minimo si rischia una coltellata. Ma il People Mover, trenino monorotaia che
collega una bella fetta del centro, viaggia mezzo vuoto anche di giorno,
sfiorando palazzi semidiroccati e zone spettrali.

Tutto questo Temple lo documenta con efficacia, convinto che Detroit con le
sue devastazioni metropolitane sia il paradigma di tutte le grandi città Usa e
occidentali, anzi la prima città postamericana. Secondo il regista resta un
barlume di speranza, «forse si può ancora risorgere e ricominciare daccapo». Ma
proprio questo è il punto. Temple vede romanticamente una trasformazione
ecologista, verde e agreste, sedotto dal piano delle fattorie urbane, l'
agricoltura in città.

Il problema, però, a Detroit come a Torino, come altrove, è il lavoro. Forse
come segnale di rinascita è più importante che Chrysler stia per assumere mille
tecnici ad Auburn Hills e Gm mille ingegneri.
con lastampa.it

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