giovedì 1 aprile 2010

[ZI100401] Il mondo visto da Roma

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Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 01 aprile 2010

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Santa Sede


Il Papa chiede ai cristiani di essere "persone di pace"
Bisogna opporsi alla violenza e confidare nel potere dell'amore
di Inma Álvarez

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- Durante l'omelia della Messa Crismale celebrata questo giovedì mattina nella Basilica di San Pietro, Papa Benedetto XVI ha affermato che i cristiani "dovrebbero essere persone di pace", una pace che nasce dalla lotta per la giustizia.

In questa celebrazione solenne nella quale si benedicono gli olii santi, il Papa ha voluto ricordare, insieme ai Cardinali, ai Vescovi e ai sacerdoti presenti a Roma, il simbolismo sacramentale dell'olio nella fede cristiana, che simboleggia l'unzione dello Spirito Santo e che parla di pace e, allo stesso tempo, di lotta e di misericordia.

Il ramo d'ulivo, e quindi l'olio, è segno di pace nella Scrittura, ha ricordato.

"I cristiani dei primi secoli amavano ornare le tombe dei loro defunti con la corona della vittoria e il ramo d'ulivo, simbolo della pace. Sapevano che Cristo ha vinto la morte e che i loro defunti riposavano nella pace di Cristo".

Questa pace, che il mondo non era in grado di dare, li aspettava, ha affermato il Papa. Cristo "porta, per così dire, il ramo d'ulivo, introduce la sua pace nel mondo. Annuncia la bontà salvifica di Dio".

"I cristiani dovrebbero quindi essere persone di pace, persone che riconoscono e vivono il mistero della Croce come mistero della riconciliazione. Cristo non vince mediante la spada, ma per mezzo della Croce. Vince superando l'odio. Vince mediante la forza del suo amore più grande".

In questo senso, ha aggiunto, "la Croce di Cristo esprime il 'no' alla violenza. E proprio così essa è il segno della vittoria di Dio, che annuncia la nuova via di Gesù".

Per questo, ha aggiunto rivolgendosi ai sacerdoti, "siamo chiamati ad essere, nella comunione con Gesù Cristo, uomini di pace, siamo chiamati ad opporci alla violenza e a fidarci del potere più grande dell'amore".

Allo stesso tempo, ha spiegato, l'olio è ciò che "rende forti per la lotta".

"Ciò non contrasta col tema della pace, ma ne è una parte - ha dichiarato -. La lotta dei cristiani consisteva e consiste non nell'uso della violenza, ma nel fatto che essi erano e sono tuttora pronti a soffrire per il bene, per Dio".

I cristiani, dunque, "come buoni cittadini, rispettano il diritto e fanno ciò che è giusto e buono", "rifiutano di fare ciò che negli ordinamenti giuridici in vigore non è diritto, ma ingiustizia".

"Anche oggi è importante per i cristiani seguire il diritto, che è il fondamento della pace. Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un'ingiustizia che viene elevata a diritto - per esempio, quando si tratta dell'uccisione di bambini innocenti non ancora nati".

La bontà di Dio

L'olio, presente in vari sacramenti, "è segno della bontà di Dio che ci tocca" e "ci accompagna lungo tutta la vita: a cominciare dal catecumenato e dal Battesimo fino al momento in cui ci prepariamo all'incontro con il Dio Giudice e Salvatore" e al sacerdozio.

"In etimologie popolari si è collegata, già nell'antichità, la parola greca 'elaion' - olio - con la parola 'eleos' - misericordia. Di fatto, nei vari Sacramenti, l'olio consacrato è sempre segno della misericordia di Dio".

Quando all'ordine sacerdotale, ha spiegato, "l'unzione per il sacerdozio significa pertanto sempre anche l'incarico di portare la misericordia di Dio agli uomini".

"Nella lampada della nostra vita non dovrebbe mai venir a mancare l'olio della misericordia", ha aggiunto.

L'olio è infine "di letizia", che "è una cosa diversa dal divertimento o dall'allegria esteriore che la società moderna si auspica".

"Il divertimento, nel suo posto giusto, è certamente cosa buona e piacevole. È bene poter ridere. Ma il divertimento non è tutto. È solo una piccola parte della nostra vita, e dove esso vuol essere il tutto diventa una maschera dietro la quale si nasconde la disperazione o almeno il dubbio se la vita sia veramente buona, o se non sarebbe forse meglio non esistere invece di esistere".

Ad ogni modo, ha sottolineato il Pontefice, "la gioia, che da Cristo ci viene incontro, è diversa. Essa ci dà allegria, sì, ma certamente può andar insieme anche con la sofferenza".

"L'olio di letizia, che è stato effuso su Cristo e da Lui viene a noi, è lo Spirito Santo, il dono dell'Amore che ci rende lieti dell'esistenza. Poiché conosciamo Cristo e in Cristo Dio, sappiamo che è cosa buona essere uomo. È cosa buona vivere, perché siamo amati. Perché la verità stessa è buona", ha concluso.

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La preghiera di Gesù nell'Ultima cena, "atto fondante della Chiesa"
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- La preghiera che Gesù Cristo rivolge nell'Ultima cena al Padre è l'"atto fondante della Chiesa", ha affermato Benedetto XVI questo giovedì pomeriggio nell'omelia della Messa nella Cena del Signore.

Il Pontefice ha presieduto la celebrazione nella Cattedrale del Papa, la Basilica di San Giovanni in Laterano, ricordando la richiesta di Cristo dell'"unità per i discepoli, per quelli di allora e quelli futuri".

"Non prego solo per questi [la comunità dei discepoli radunata nel Cenacolo], ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa", dice Gesù, che quindi "guarda in avanti verso l'ampiezza della storia futura", "vede i pericoli di essa e raccomanda questa comunità al cuore del Padre".

In questo brano del Vangelo di Giovanni, ha sottolineato il Vescovo di Roma, la Chiesa "appare nelle sue caratteristiche essenziali: come la comunità dei discepoli che, mediante la parola apostolica, credono in Gesù Cristo e così diventano una cosa sola".

"Gesù implora la Chiesa come una ed apostolica. Così questa preghiera è propriamente un atto fondante della Chiesa". Cristo chiede "che l'annuncio dei discepoli prosegua lungo i tempi" e che i credenti vivano "nell'interiore comunione con Dio e con Gesù Cristo".

Allo stesso modo, chiede che "da questo essere interiormente nella comunione con Dio si crei l'unità visibile", "un'unità che vada tanto al di là di ciò che solitamente è possibile tra gli uomini, da diventare un segno per il mondo ed accreditare la missione di Gesù Cristo".

Esame di coscienza

La preghiera di Gesù, ha spiegato Benedetto XVI, è una "garanzia che l'annuncio degli Apostoli non potrà mai cessare nella storia", ma "è sempre anche un esame di coscienza per noi".

"In quest'ora il Signore ci chiede: vivi tu, mediante la fede, nella comunione con me e così nella comunione con Dio? O non vivi forse piuttosto per te stesso, allontanandoti così dalla fede? E non sei forse con ciò colpevole della divisione che oscura la mia missione nel mondo; che preclude agli uomini l'accesso all'amore di Dio?".

"Quando noi meditiamo sulla Passione del Signore, dobbiamo anche percepire il dolore di Gesù per il fatto che siamo in contrasto con la sua preghiera; che facciamo resistenza al suo amore; che ci opponiamo all'unità, che deve essere per il mondo testimonianza della sua missione".

L'importanza della relazione

Il Pontefice si è poi soffermato sulla "vita eterna" di cui parla Gesù, spiegando che con queste parole intende "la vita autentica, vera, che merita di essere vissuta", "una vita che è pienamente vita e per questo è sottratta alla morte, ma che può di fatto iniziare già in questo mondo, anzi, deve iniziare in esso".

La vera vita, ricorda Cristo, è conoscere Dio e il suo Inviato. "Ciò significa anzitutto: vita è relazione - ha commentato il Papa -. Nessuno ha la vita da se stesso e solamente per se stesso".

"Solo la relazione con Colui che è Egli stesso la Vita può sostenere anche la mia vita al di là delle acque della morte, può condurmi vivo attraverso di esse", ha sottolineato Benedetto XVI.

"Diventiamo amici di Gesù, cerchiamo di conoscerLo sempre di più! Viviamo in dialogo con Lui! Impariamo da Lui la vita retta, diventiamo suoi testimoni!", ha esortato.

L'essere di Dio con il suo popolo, infatti, "si compie nell'incarnazione del Figlio", in cui "si completa realmente ciò che aveva avuto inizio presso il roveto ardente: Dio quale Uomo può essere da noi chiamato e ci è vicino".

"Il mistero eucaristico, la presenza del Signore sotto le specie del pane e del vino è la massima e più alta condensazione di questo nuovo essere-con-noi di Dio".

"In quest'ora deve invaderci la gioia e la gratitudine perché Egli si è mostrato; perché Egli, l'Infinito e l'Inafferrabile per la nostra ragione, è il Dio vicino che ama, il Dio che noi possiamo conoscere ed amare", ha concluso il Papa.

Dopo l'omelia, il Santo Padre ha lavato i piedi a dodici presbiteri, riproponendo il gesto compiuto da Gesù verso gli apostoli.

Al momento dell'offertorio, i fedeli sono stati invitati a esprimere un gesto di solidarietà con il seminario della Diocesi di Port-au-Prince, ad Haiti. Le offerte, in questo Anno Sacerdotale dedicato ai presbiteri e a quanti si preparano a diventarlo, aiuteranno a ricostruire il seminario, devastato dal sisma.

Al termine della Messa si è poi svolta una breve processione con la reposizione del Santissimo Sacramento all'altare della cappella di San Francesco.

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La Santa Sede chiede la cancellazione del debito di Haiti
La delegazione vaticana alla Conferenza per la ricostruzione del Paese
ROMA, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- La Santa Sede chiede la cancellazione del debito di Haiti, Paese devastato dal terremoto del 12 gennaio scorso che ha provocato più di 200.000 vittime.

In occasione della Conferenza Internazionale per la Ricostruzione di Haiti, svoltasi a New York questo mercoledì, la delegazione vaticana ha presentato una dichiarazione in cui ricorda che la Chiesa cattolica e la Santa Sede "si sono unite immediatamente alla straordinaria risposta d'emergenza al terremoto, aiutando nella ricostruzione e nella riabilitazione dei sopravvissuti".

"Attraverso agenzie, associazioni e singoli, ha fornito cibo, vestiti e alloggi, promuovendo anche reti capaci di condividere le preoccupazioni della vita, le perdite e le speranze".

La Santa Sede, ricorda la dichiarazione, "continuerà a chiedere contributi per i programmi di ricostruzione di Haiti ufficiali e privati, così come per il pieno e giusto inserimento del Paese nel sistema economico mondiale".

In questo senso, "è profondamente soddisfatta nell'apprendere della cancellazione del debito di Haiti alla Banca per lo Sviluppo Interamericano e della moratoria o del rinvio del pagamento dei suoi debiti alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale".

A tale proposito, anzi, "la Santa Sede ribadisce la sua richiesta della piena cancellazione il prima possibile".

I numeri dell'assistenza

Nel primo mese dopo il terremoto, Caritas Internationalis, la principale agenzia caritativa della Chiesa cattolica, "ha raccolto 200 milioni di dollari dai cattolici di 40 Paesi e ha nutrito 50.000 persone, fornendo inoltre kit di riparo a 43.000 persone e assistenza medica a più di 15.000".

"Molte agenzie cattoliche internazionali indipendenti, come Aiuto alla Chiesa che Soffre, così come molte Congregazioni religiose hanno inviato donazioni da 100.000 a 2 milioni di dollari".

110 Diocesi statunitensi hanno poi inviato quasi 30 milioni di dollari a un Fondo Speciale per Haiti, mentre il Catholic Relief Services ha raccolto più di 90 milioni di dollari per gli aiuti.

In seguito agli appelli di Papa Benedetto XVI, ricorda la dichiarazione, i cattolici dei Paesi ricchi e di quelli in via di sviluppo hanno offerto "donazioni volontarie, individuali e collettive, alla Croce Rossa nazionale e internazionale e ai Governi, contribuendo così in modo sostanziale al raggiungimento dei 3 miliardi già raccolti o promessi all'Ufficio per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie (OCHA)".

Allo stesso modo, "molte istituzioni e migliaia di funzionari e volontari sul posto si sono attivati per distribuire gli aiuti delle Nazioni Unite e le donazioni di Governi e organizzazioni internazionali che non hanno strutture o una presenza permanente ad Haiti".

Guardare al futuro

La rete di assistenza cattolica, ha ricordato la delegazione vaticana, "è impegnata nei progetti di ricostruzione per i prossimi cinque anni ad Haiti, che forniranno abitazioni, assistenza medica, mezzi di sussistenza e istruzione".

Il contributo delle organizzazioni basate sulla fede e delle ONG locali, ha aggiunto, è stato "significativo" e continuerà "per lungo tempo dopo che molte organizzazioni e ONG internazionali avranno lasciato il Paese".

Queste organizzazioni, sottolinea, "possono avere un ruolo fondamentale nell'aiutare la popolazione in un modo che tenga conto delle sue condizioni e ne rispetti costumi e tradizioni".

Per questo, ha concluso la delegazione, "è importante che le organizzazioni basate sulla fede e le ONG locali non vengano ignorate nella predisposizione di un piano a lungo termine per ricostruire la vita del Paese".

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Notizie dal mondo


Giovedì Santo al Santo Sepolcro
Il Patriarca deplora i peccati dei sacerdoti
GERUSALEMME, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- La mattina di questo Giovedì Santo, al Santo Sepolcro, Sua Beatitudine Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme, ha presieduto la Messa nella Cena del Signore circondato da circa 200 sacerdoti e dai pellegrini che affollavano il luogo santo.

La celebrazione eucaristica si è svolta in un orario del tutto insolito rispetto al resto del mondo, unendosi alla Messa crismale, perché così è previsto dallo status quo, il regolamento che determina nei Luoghi Santi gli orari delle celebrazioni per le varie Chiese cristiane.

In quest'Anno Sacerdotale, il Patriarca si è rivolto in particolare ai presbiteri di Terra Santa per esortarli a rispondere "sì" a Cristo e a deplorare i peccati commessi dai sacerdoti, che sono così diventati motivo di scandalo.

Il Patriarca ha consacrato il santo crisma e ha benedetto gli olii. I presbiteri hanno poi rinnovato davanti a lui le loro promesse sacerdotali. Sua Beatitudine ha lavato i piedi a dodici uomini, sei seminaristi di Beit Jala e sei frati francescani.

Nell'omelia, si è rivolto in modo particolare ai presbiteri, perché in questo Anno Sacerdotale la Chiesa rivive l'istituzione dell'Eucaristia e del sacerdozio.

Senza il sacerdozio "non potremmo avere il Signore con noi", ha affermato citando il Curato d'Ars, San Giovanni Maria Vianney, e ha aggiunto richiamando le parole di Benedetto XVI: "Senza sacerdozio la passione e la morte di Cristo rimarrebbero per noi inaccessibili".

"In quest'anno - ha rimarcato -, inoltre, la Chiesa deplora le debolezze, le deviazioni e gli abusi dei sacerdoti per i quali anche noi chiediamo perdono".

"L'ammissione delle nostre debolezze, imperfezioni e limiti - come afferma il Santo Padre - costituisce il primo e più importante passo. La nostra confessione e umiltà offrono un buon esempio. Il perdono del Signore e la comprensione del gregge ci aiutano e ci incoraggiano ad essere 'una cosa sola con Cristo', ad essere 'altri Cristi'", ha aggiunto.

Sua Beatitudine ha quindi concluso con questa esortazione ai sacerdoti: "Diciamo ancora 'sì', ripetendo le promesse della nostra ordinazione sacerdotale e della nostra consacrazione".

La Messa si è conclusa con la processione con il Santissimo Sacramento portato dal Patriarca, che ha fatto tre volte il giro attorno alla tomba di Gesù, accompagnato dai Vescovi, dai sacerdoti, dai frati francescani e dai seminaristi, mentre i fedeli cantavano il "Pange lingua" con le candele in mano.

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I cattolici del Pakistan celebrano la Pasqua nella paura
Appello dei Vescovi a testimoniare il Risorto
ISLAMABAD, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- I cattolici del Pakistan si preparano alle celebrazioni della Pasqua nella paura, ma i loro Vescovi li esortano a proclamare la resurrezione di Cristo.

A Lahore, nel Punjuab, i responsabili della Chiesa cattolica non nascondono che il sentimento dominante tra i fedeli è il terrore, aggiungendo che gli appelli che rivolgono loro consistono nel non aver paura di testimoniare la Buona Novella, ha sottolineato questo mercoledì Eglises d'Asie, l'agenzia delle Missioni Estere di Parigi (MEP).

Negli ultimi mesi, in Pakistan sembrano essersi accumulate le brutte notizie. Oltre ai frequenti attentati terroristici, i tagli all'elettricità sono pesanti come mai prima d'ora e l'inflazione rende inaccessibili gli articoli di base per i più poveri. L'incapacità del potere politico di stroncare l'azione dei militanti islamici dimostra la sua impotenza.

In questo contesto, la piccola minoranza cristiana non è esente dai problemi. Oltre al terrorismo che ne fa uno dei bersagli principali, lamenta il fatto che la maggioranza dei suoi membri, che appartengono alle fasce più povere della popolazione, sia vittima di una doppia discriminazione, sociale e religiosa.

Nonostante tutto, i Vescovi dell'Arcidiocesi di Lahore vogliono mantenere la speranza.

Per il suo Messaggio di Pasqua, pubblicato suo quotidiano diocesano, l'Arcivescovo Lawrence J. Saldanha ha scelto il titolo "La luce nell'oscurità".

"Viviamo un periodo oscuro e difficile - ammette -. La gente ha paura e teme gli attentati suicidi (...). La festa di Pasqua ci dà un messaggio di speranza e di gioia nonostante le difficili circostanze in cui viviamo. Per la resurrezione di Cristo dai morti, celebriamo la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte e della speranza sulla disperazione".

Sul Catholic Naqeeb, il quindicinale in urdu diocesano di Lahore, monsigor Sebastian Shah, Vescovo ausiliare, segnala che i fedeli "non si sentono più sicuri, in casa o nel quartiere, per l'aumento del costo della vita, la disoccupazione, gli attentati suicidi e la penuria di prodotti di base".

Il presule esorta i cristiani a diventare "portatori della Buona Novella" tra i loro fratelli non cristiani, anch'essi tristi, depressi o terrorizzati per la situazione del Paese.

"Indipendentemente dalle circostanze, mantenete la fede in Dio e difendete il primato della vita in una società tentata dalla disperazione", esorta.

Interpellato dall'agenzia Ucanews, padre Andrew Nisari, vicario generale di Lahore, ha aggiunto che i preparativi per la Pasqua procedono bene, e ha precisato che i fedeli erano particolarmente assidui alla Via Crucis nelle chiese ogni venerdì.

Quanto alle celebrazioni della Settimana Santa, si svolgeranno in modo solenne come negli anni precedenti, ma con discrezione. Le grandi processioni del passato sono ormai dimenticate e hanno lasciato il posto alle celebrazioni limitate allo spazio delle chiese. L'accesso ai luoghi di culto, inoltre, subisce un doppio filtro, delle forze di sicurezza governative e poi del servizio d'ordine della Diocesi.

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Dottrina Sociale e Bene Comune


Promuovere le imprese per sconfiggere la disoccupazione

di mons. Angelo Casile*

ROMA, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- L'enciclica Caritas in Veritate sottolinea il nesso diretto tra povertà e disoccupazione come «risultato della violazione della dignità del lavoro umano» (CV 63), perché l’uomo viene limitato nella possibilità di esprimersi e sia perché vengono svalutati i diritti che scaturiscono dal lavoro, «specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia».[1]

La disoccupazione può essere sconfitta solo se si creano posti di lavoro, solo se esistono imprenditori che scommettono sulla riuscita della loro impresa. Esistono profondi legami tra l’impresa e il territorio su cui opera. La gestione dell’impresa deve caratterizzarsi per una responsabilità sociale che tenga conto non solo degli «interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento» (CV 40). Fare impresa è fare un patto per la crescita del territorio.

I problemi della mobilità lavorativa e della deregolamentazione sono stati causati dalla «ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni». La mobilità anche se da una parte è «capace di stimolare la produzione di nuova ricchezza e lo scambio tra culture diverse», dall’altra genera «incertezza circa le condizioni di lavoro» e crea «forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio» (CV 25).

La delocalizzazione non è lecita, se realizzata per «godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento». Può essere positiva se comporta del bene alle popolazioni del Paese che la ospita, investimenti e formazione alla società locale, «un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile» (CV 40).

Promuovere il turismo e la cooperazione

L’essere estromessi dal lavoro per lungo tempo o anche la dipendenza prolungata dall’assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e spirituale». È importante ribadire che: «il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: “L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale”[2]» (CV 25).

Promuovere il turismo può costituire un impegno lavorativo a misura d’uomo, un notevole fattore di sviluppo economico e di crescita culturale», se non diviene «occasione di sfruttamento e di degrado morale» e se offre l’opportunità di «esperienze imprenditoriali significative», che, combinate con la cultura del territorio e attente all’educazione, siano capaci di «promuovere una vera conoscenza reciproca… grazie anche ad un più stretto collegamento con le esperienze di cooperazione internazionale e di imprenditoria per lo sviluppo» (CV 61).

Anche la cooperazione può essere vincente se si pone al servizio dell’economia reale e dei bisogni delle persone attraverso microprogetti, che vivono in profonda armonia con il loro territorio e sulla «mobilitazione fattiva di tutti i soggetti della società civile, tanto delle persone giuridiche quanto delle persone fisiche». C’è bisogno di persone che vivano il «processo di sviluppo economico e umano, mediante la solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto» (CV 47) ed agiscono in campo economico e finanziario «in modo etico così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell’uomo e dei popoli… Se l’amore è intelligente, sa trovare anche i modi per operare secondo una previdente e giusta convenienza, come indicano, in maniera significativa, molte esperienze nel campo della cooperazione di credito» (CV 65).

In queste espressioni non possiamo non ritrovare le peculiarità del Progetto Policoro.

Accogliere gli immigrati

Un altro campo su cui poter concentrare la propria azione è quello dell’organizzare, nella legalità, l’accoglienza e il lavoro degli immigrati. Il fenomeno delle migrazioni è un problema che merita tutta la nostra attenzione: «impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale». Occorre puntare su lungimiranti politiche di cooperazione internazionale, «salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati».

I lavoratori stranieri apportano un «contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d’origine grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione»[3] (CV 62).

Ricordiamoci delle parole solenni di Paolo VI: «Per la Chiesa cattolica nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano. Ognuno, a cui è diretto il Nostro saluto, è un chiamato, un invitato; è, in certo senso, un presente».[4] Parole riprese da Giovanni Paolo II: «Nella Chiesa nessuno è straniero, e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo».[5]

Costruiamo insieme un nuovo umanesimo

Il nostro impegno a favore della promozione del lavoro va vissuto alla luce di un’affermazione di Benedetto XVI: «solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale» (CV 78).

Occorre riconoscerci figli di Dio per poter promuovere sviluppo, far rifiorire la speranza nei cuori, puntare sull’educazione dell’uomo e sulla promozione di un nuovo umanesimo, vivere la fraternità, e assumere la virtù della speranza come compito quotidiano.

Ciascuno di noi deve riscoprire l’invito antico e perenne di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). «Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù… La conversione è il “sì” totale di chi consegna la propria esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva».[6]

Lo sviluppo di ciascuno di noi e delle nostre comunità «ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera» (CV 79) poiché «senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (CV 78). Il vero sviluppo umano integrale è impossibile senza uomini retti che si impegnino nella fraternità, nella solidarietà e nella sussidiarietà, che privilegiano l’educazione guidata da una visione integrale dell’uomo, per un lavoro “decente” per tutti, nella cooperazione sociale basata sulla convivialità, nell’economia e nella finanza finalizzate al sostegno di un vero sviluppo.

Per promuovere il lavoro nelle nostre terre, occorre anzi tutto rinnovare i nostri cuori, essere uomini nuovi, per poter usare a pieno della nostra intelligenza e del nostro cuore, talenti che il Signore ci ha donato per farne un dono gratuito e quotidiano a noi stessi, agli altri e a Dio stesso.

Gesù, divin lavoratore, accompagni il nostro cammino e ci aiuti a realizzare la Sua opera: donare Dio al mondo nella carità e nella verità.

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*Mons. Angelo Casile è Direttore dell'Ufficio Nazionale per la Pastorale Sociale e del Lavoro della Conferenza Episcopale Italiana.

1) Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 8.

2) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 63.

3) Cfr Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, Istr. Erga migrantes caritas Christi, 3 maggio 2004.

4) Omelia per Messa della chiusura del Concilio, 8 dicembre 1965.

5) Messaggio per la Giornata Mondiale dell’Emigrazione, 25 luglio 1995.

6) Benedetto XVI, Udienza generale, 17 febbraio 2010.

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Italia


Pieno sostegno dell'Ordinariato militare in Italia al Papa
Contro "sentimenti di astio e forme di anticlericalismo che si pensavano superate"
ROMA, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- L'Ordinariato militare in Italia ha espresso pieno sostegno a Benedetto XVI nel contesto della campagna diffamatoria che si è scatenata ultimamente contro di lui sulla scia delle notizie sugli abusi sessuali da parte di membri del clero.

In una lettera inviata ai comandanti, ai cappellani e ai fedeli della Chiesa Ordinariato militare, l'Arcivescovo Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l'Italia, ha affermato che "addolora questa forma subdola di progressiva e continua irrisione e di aperta aggressività a tutto quello che la Chiesa cattolica propone per tenere lo sguardo rivolto verso l'alto, dimensione autentica di libertà".

"Meraviglia, poi, che questo Pontefice, così ricco di mitezza evangelica e di onestà intellettuale, susciti sentimenti di astio e forme di anticlericalismo che si pensava fossero superate", ha aggiunto.

In questo contesto, in cui "infastidisce la predicazione del bene, la testimonianza della giustizia e l'impegno per la pace", l'Ordinariato militare in Italia "esprime piena comunione, adesione sincera e immutata a Benedetto XVI".

"I militari italiani vogliono bene al Successore di Pietro e gli sono vicini nella preghiera insistente e nell'obbedienza al ministero della verità che Egli annuncia: quella religiosa che riguarda il mistero di Cristo e della Chiesa; e quella morale che richiama i criteri etici per una vita buona per gli individui e per un vero umanesimo della cultura e della società".

"Le donne e gli uomini con le stellette ne ammirano lo stile pastorale fatto di interiore dedizione, grande rispetto, benefica dolcezza e retta coscienza".

Per questo motivo, monsignor Pelvi ha chiesto alla Provvidenza "di continuare ad accompagnare il Santo Padre nell'alto ministero a Lui affidato, ricordando la parola di Gesù: 'Ecco Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi'".

Questa immagine biblica, ha spiegato, "non descrive soltanto il conflitto, ma anche la sproporzione del confronto".

Lo scontro, infatti, "non è ad armi pari: il lupo è l'emblema della violenza e dell'inganno, due atteggiamenti che ogni apostolo non può in nessun caso fare propri".

"Qui sta l'apparente debolezza... qui trova spazio la virtù della fortezza evangelica, che implica il coraggio di restare fermi nella verità".

Di fronte agli "ingiusti e menzogneri attacchi", la Chiesa castrense "risponde concorde e unanime nella preghiera per il Sommo Pontefice che antepone Cristo e il bene delle anime ad ogni umana considerazione, consapevole che è meglio lasciar perdere le opinioni terrene".

"Il Signore non abbandonerà mai la Sua Chiesa e il Papa che le ha donato, la cui grandezza è davanti agli occhi del mondo intero", ha dichiarato l'Arcivescovo Pelvi.

"Abbiamo tutti bisogno del Successore di Pietro, della sua ombra risanatrice, della sua parola e della sua instancabile e sicura guida", ha concluso.

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La sorpresa di una base comune
Gli ambasciatori concordano sull'emergere di un nuovo modello di secolarizzazione
di Andrea Kirk Assaf


ROMA, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- Negli ultimi duemila anni, la città di Roma è stata un crocevia di dialogo culturale e religioso, spesso sotto il patrocinio della Santa Sede.

E' l'unica città al mondo a ospitare due ambasciatori per ogni Paese straniero, uno accreditato presso lo Stato italiano e l'altro presso lo Stato della Città del Vaticano, o meglio presso la Santa Sede. Gli ambasciatori presso la Santa Sede hanno un mandato unico - scoprire e sviluppare aree di comunione e collaborazione riguardanti non il commercio, ma l'etica, il servizio e la cultura.

Gli ambasciatori presso la Santa Sede di Egitto, Turchia e Stati Uniti hanno hanno ripreso questo compito all'inizio del mese in una conferenza dedicata a una delle questioni politiche oggi più pressanti e urgenti: il rapporto tra islam, cristianesimo e vita civile.

Ospitati dalla rivista cattolica "30 Giorni", in collaborazione con le tre ambasciate, i tre diplomatici hanno condiviso le proprie riflessioni in un'aula del Senato italiano, luogo appropriato per una presentazione dal titolo "La sorpresa di una base comune: cristiani e musulmani di fronte ai poteri civili".

Un docente di Filosofia Politica, Fred Dallmayr, dell'Università di Notre Dame, ha aperto la conferenza con un commento sui due deragliamenti per la fede - la tentazione di ritirarsi dal mondo della privatizzazione e l'assimilazione nel mondo.

La Costituzione degli Stati Uniti cerca di evitare questi due estremi non stabilendo una religione di Stato ufficiale e non imponendo restrizioni alla libertà religiosa. Nessuna religione è quella ufficiale degli Stati Uniti, e quindi tutte devono obbedire alla legge del Paese, ha ricordato il docente. Ogni religione dovrebbe resistere alla tentazione di allontanarsi dalla vita civile, ma deve anche evitare la tentazione di imporsi.

Modellare le forze

L'ambasciatrice Lamia Mekhemar dell'Egitto ha iniziato la discussione osservando che la religione si è rivelata ancora una volta una potente forza modellatrice nella politica, a livello sia nazionale che internazionale, a causa dei vari sviluppi storici che hanno rinnovato il dibattito sul ruolo della religione nella sfera politica e "mettono alla prova il principio del secolarismo".

La nuova domanda, ha sottolineato, è se il modello di secolarismo adottato da molti Paesi sia ancora valido oggi. L'errata corrispondenza tra secolarismo e ateismo ha portato alcuni credenti a respingere del tutto il concetto, mentre una corretta comprensione del secolarismo permette la libertà di culto in base alla coscienza di ogni individuo, fintanto che la forma di adorazione non intacca negativamente la vita pubblica. Il secolarismo, ha affermato l'ambasciatrice, include il lavoro di tutte le fedi per il bene comune.

Nel contesto dell'Egitto, il diplomatico ha dichiarato che la sfida è come far sopravvivere il modello secolare di governo a una possibile presa di potere da parte di un'"egemonia religiosa rampante". L'obiettivo, allora, è promuovere un modello secolare che funzioni come piattaforma comune in cui lo scopo collettivo sia l'interesse pubblico. La religione non dovrebbe essere considerata né un "mero bacino di moralità" né una "fonte diretta di legislazione", ma piuttosto una fonte per e un contributo alla legislazione, come è sempre stato in tutti i sistemi legali.

Per l'ambasciatrice, un nuovo modello di secolarismo dovrebbe soddisfare le aspirazioni dei gruppi religiosi e allo stesso tempo difendere con rigore le libertà fondamentali, i diritti umani e il sistema legale.

Esperienza americana

L'esperienza americana del secolarismo è stata affrontata da Miguel Diaz, ambasciatore statunitense presso la Santa Sede, per il quale la religione è la causa della cultura, non un suo prodotto, e nessuno Stato può permettersi di bypassare l'importanza che ha nella società.

Negli Stati Uniti, il secolarismo non ha provocato una diminuzione della fede, ha sottolineato, né un minor contributo della fede all'ordine sociale. La fede dovrebbe riunire gente di diversa provenienza nel servizio, sia esso la lotta alla malaria in Africa o il sostegno dopo il terremoto ad Haiti. Il radicalismo religioso, tuttavia, ostacola questa cooperazione interreligiosa.

"Non c'è progresso", ha detto l'ambasciatore citando il discorso del Presidente Barack Obama all'Università Teologica Al Azhar del Cairo, "quando si demonizzano i nemici. [...] C'è quando guardiamo negli occhi dell'altro e vediamo il volto di Dio".

L'ambasciatore turco Kenan Gursoy, docente di Filosofia, si è concentrato sulla necessità di essere consapevoli della propria identità e di ciò in cui si crede. Capire la propria identità religiosa, ha affermato, è possibile solo in una situazione di coesistenza con persone di fedi diverse. Per convivere dobbiamo capire cosa è fondamentale e cosa transitorio, e riconoscere l'esistenza di valori etici universali.

Come musulmani, ha dichiarato, "dobbiamo creare un linguaggio filosofico per spiegare chi siamo e le nostre responsabilità - non in modo astratto, ma con riferimento all'etica universale e agli altri, alla base comune". Quest'ultima, ha commentato, non significa uguaglianza, ma comunicazione per raggiungere il bene comune.

Alfabetizzazione religiosa

Il professor Scott Appleby del Chicago Council on Global Affairs ha offerto la presentazione finale della conferenza, annunciando la recente pubblicazione di un rapporto dal titolo "Engaging Religious Communities Abroad: A New Imperative for U.S. Foreign Policy" ("Impegnare le comunità religiose all'estero: un nuovo imperativo per la politica estera statunitense"), che ha tradotto la discussione dell'incontro in proposte concrete al Governo degli Stati Uniti su come e perché si dovrebbe dare più voce alla religione nella politica interna e internazionale.

In passato, il Governo USA ha affontato la religione solo perché è legata all'antiterrorismo, ha affermato Appleby, ma questo rapporto chiede un ripensamento della questione: un programma di "alfabetizzazione religiosa" in molte agenzie governative, non solo nel settore dei servizi, per capire e rispondere all'esistenza e al ruolo della religione nel "mondo reale". La religiosità sta aumentando e cambiando a causa della globalizzazione, ha spiegato Appleby, e i vecchi approcci sono inadeguati.

Richiamando questa posizione, il Cardinale Georges Marie Cottier, teologo emerito della Casa Pontificia, ha riassunto i temi della conferenza, osservando che il vecchio atteggiamento dei circoli politici per cui Dio e la religione non esistono non funziona.

Siamo sulla soglia di una nuova era, ha affermato: le idee o gli approcci passati non servono più perché la società è cambiata a causa della globalizzaizone, e questo ha mostrato una mancanza di solidarietà. Ciò che è cambiato in meglio è la recente riscoperta della fraternità grazie a un riconoscimento degli elementi comuni nelle tradizioni monoteistiche, che sono la trascendenza di Dio e il rapporto privato del singolo con Lui.

La pace tra i popoli, ha concluso il Cardinale, non si può mai raggiungere con mezzi violenti, ma solo con il dialogo e i contributi reciproci.


[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]

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Dichiarazione del Cardinale Scola sui sacerdoti e consacrati pedofili
ROMA, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della dichiarazione sulla questione del peccato e del crimine di pedofilia commesso da sacerdoti e consacrati che il Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, ha letto questo giovedì al termine della Messa del Crisma, tenutasi nella Basilica di San Marco (Venezia).

 



* * *

La ricorrenza solenne della Santa Messa del Crisma che vede qui riunito tutto il presbiterio, con i diaconi, le religiose ed i religiosi e non pochi fedeli laici, mi spinge a dire una doverosa parola in merito alla questione del peccato e del crimine di pedofilia commesso da sacerdoti e consacrati. Questo tema, anche nel nostro Paese, è da più giorni in primo piano.

Con un giudizio pacato ed obiettivo intendo manifestare a voi tutti, a tutto il popolo cristiano e a tutti gli abitanti del Patriarcato quanto in proposito ho nel cuore da giorni.

1. Come ha affermto Benedetto XVI, hanno ribadito il Cardinale Angelo Bagnasco ed il recente Comunicato finale del Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana, la pedofilia «è un crimine odioso, ma anche peccato scandalosamente grave che tradisce il patto di fiducia inscritto nel rapporto educativo... Se commesso da una persona consacrata, acquista una gravità ancora maggiore».

Da qui il nostro sgomento, senso di tradimento e rimorso per l'infanzia violata e ancor più la nostra vicinanza alle vittime e ai loro famigliari. Da qui anche, senza tentennamenti e minimizzazioni, il rinnovato impegno a rendere conto di ognuno di questi misfatti, decisi a non nascondere nulla. La misericordia ed il perdono verso quanti hanno sbagliato implica da parte loro il sottomettersi alle esigenze di piena giustizia e quindi il rispondere «davanti a Dio onnipotente come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti». I Vescovi italiani si impegnano a seguire le direttive ribadite dal Santo Padre sia attraverso le procedure canoniche che mediante una leale collaborazione con le autorità dello Stato. Moltiplicheranno inoltre i loro sforzi per prevenire simili situazioni. Anche un solo caso «è sempre troppo, soprattutto se a compierlo è un sacerdote».

Fa parte di un atteggiamento obiettivo rilevare il dato, sottolineato da molte parti anche non cattoliche, che il fenomeno della pedofilia concerne diversi ambienti e varie categorie di persone. Questa notazione non intende sminuire la gravità dei fatti segnalati in ambito ecclesiastico, ma invita «a non subire - qualora ci fossero - strategie di discredito generalizzato».

2. Mi preme in questo contesto ringraziare voi tutti, carissimi sacerdoti del Patriarcato, per la vostra indefessa e diuturna azione in campo educativo. I gravissimi episodi segnalati in talune diocesi non debbono oscurare questo vostro luminoso impegno e gettare discredito sulla preziosa azione che da tempo immemorabile voi svolgete nelle nostre parrocchie, nelle nostre scuole, nonché nelle aggregazioni di fedeli. Azione educativa che nelle Chiese del Nord-Est e nella diocesi di Venezia oggi è più che mai attenta a tutti i risvolti pedagogici.

Invito voi tutti a proseguire serenamente e ancora più energicamente nel prezioso compito di trasmettere alle nuove generazioni il senso cristiano della vita che, se adeguatamente proposto, è in grado di far crescere personalità equilibrate e mature a tutti i livelli, compreso quello affettivo e sessuale. Per questo sono certo che i moltissimi genitori che normalmente affidano alle parrocchie, alle scuole cattoliche, ai patronati, ai GREST, alle associazioni cattoliche i loro figli intensificheranno la loro fiducia e prenderanno ancor più coscienza della decisiva importanza della famiglia per introdurre ed accompagnare, nell'ambito della parrocchia, i bambini, i fanciulli ed i pre-adolescenti all'incontro con Cristo nella comunità cristiana.

3. È fuorviante e inaccettabile mettere in discussione a partire dai casi di pedofilia in ambito ecclesiastico, il santo celibato che la Chiesa latina domanda, in piena libertà, ai candidati al sacerdozio alla luce di una lunghissima tradizione. Ne stiamo riscoprendo la bellezza in questo anno sacerdotale. Il celibato, quando è vissuto con lo sguardo fisso in Gesù sacerdote e con cuore indiviso per il bene del popolo di Dio che ci è affidato, è una preziosa esperienza d'amore che fa fiorire la nostra umanità. Accogliere liberamente il dono del celibato e percorrerne la via non implica alcuna mutilazione psichica e spirituale. Per coloro che sono chiamati, la grazia del celibato è strada per una singolare ma compiuta espressione della propria affettività e sessualità. Certo siamo vasi di argilla e portiamo in essi un tesoro grande ma, con l'aiuto di Dio ed il sostegno della comunità cristiana, lo portiamo con responsabilità e letizia.

4. Infine in questa straordinaria giornata del Giovedì Santo, espressione del peculiare "genio cattolico" perché in essa splende la potenza dell'Eucaristia ed il significato pieno del sacerdozio ordinato, intendiamo ridire pubblicamente e con forza il nostro affetto e la nostra appassionata sequela al Santo Padre Benedetto XVI. A lui che tanto ha fatto e tanto fa per togliere "ogni sporcizia" dalla compagine degli uomini di Chiesa vengono rivolte accuse menzognere. Ma l' «umile lavoratore della vigna» - così Egli si definì presentandosi al mondo ormai cinque anni fa in occasione della Sua elezione al Pontificato - riceverà dallo Spirito la grazia di offrire questa iniqua umiliazione trasformandola in rinnovata energia per l'indispensabile Suo ministero di Successore di Pietro.

Noi, sacerdoti e popolo veneziano, Lo affidiamo oggi, in modo del tutto speciale, alla Santissima Vergine Nicopeja.

Carissimi, accogliete con cuore aperto queste parole del vostro Patriarca. E siate certi della sua piena fiducia e della sua stima. Sono fondate sulla conoscenza ormai pluriennale del vostro amore per Cristo e per la Chiesa che si trasforma in dono quotidiano, spesso silenzioso e non compreso, della vostra vita a favore di ogni nostro fratello uomo.

Il cammino della Visita Pastorale continui a rinsaldare la nostra unità affinché, come Gesù ci ha chiesto, il mondo creda e scopra in tal modo la pienezza del vivere.

Vi invito a trovare i modi opportuni per far conoscere il più capillarmente possibile questa Dichiarazione a tutti i fedeli e a tutti gli uomini e le donne che vivono nel nostro Patriarcato.

Con vivo affetto di comunione nel Signore benedico voi e tutti i fedeli augurandovi una Santa Pasqua.

+ Angelo Card. Scola

patriarca

Venezia, 1 aprile 2010, Giovedì Santo

 

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Omelia di Benedetto XVI per la Messa Crismale

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo giovedì, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, concelebrata con i cardinali, i vescovi ed i presbiteri - diocesani e religiosi - presenti a Roma.




* * *

Cari fratelli e sorelle!

Centro del culto della Chiesa è il Sacramento. Sacramento significa che in primo luogo non siamo noi uomini a fare qualcosa, ma Dio in anticipo ci viene incontro con il suo agire, ci guarda e ci conduce verso di sé. E c’è ancora qualcos’altro di singolare: Dio ci tocca per mezzo di realtà materiali, attraverso doni del creato che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell’incontro tra noi e Lui stesso. Sono quattro gli elementi della creazione con i quali è costruito il cosmo dei Sacramenti: l’acqua, il pane di frumento, il vino e l’olio di oliva. L’acqua come elemento basilare e condizione fondamentale di ogni vita è il segno essenziale dell’atto in cui, nel Battesimo, si diventa cristiani, della nascita alla vita nuova. Mentre l’acqua è l’elemento vitale in genere e quindi rappresenta l’accesso comune di tutti alla nuova nascita da cristiani, gli altri tre elementi appartengono alla cultura dell’ambiente mediterraneo. Essi rimandano così al concreto ambiente storico in cui il cristianesimo si è sviluppato. Dio ha agito in un luogo ben determinato della terra, ha veramente fatto storia con gli uomini. Questi tre elementi, da una parte, sono doni del creato e, dall’altra, sono tuttavia anche indicazioni dei luoghi della storia di Dio con noi. Sono una sintesi tra creazione e storia: doni di Dio che ci collegano sempre con quei luoghi del mondo, nei quali Dio ha voluto agire con noi nel tempo della storia, diventare uno di noi.

In questi tre elementi c’è di nuovo una graduazione. Il pane rinvia alla vita quotidiana. È il dono fondamentale della vita giorno per giorno. Il vino rinvia alla festa, alla squisitezza del creato, in cui, al contempo, può esprimersi in modo particolare la gioia dei redenti. L’olio dell’ulivo ha un significato ampio. È nutrimento, è medicina, dà bellezza, allena per la lotta e dona vigore. I re e i sacerdoti vengono unti con olio, che così è segno di dignità e di responsabilità, come anche della forza che viene da Dio. Nel nostro nome "cristiani" è presente il mistero dell’olio. La parola "cristiani", infatti, con cui i discepoli di Cristo vengono chiamati già all’inizio della Chiesa proveniente dai pagani, deriva dalla parola "Cristo" (cfr At 11,20-21) – traduzione greca della parola "Messia", che significa "Unto". Essere cristiani vuol dire: provenire da Cristo, appartenere a Cristo, all’Unto di Dio, a Colui al quale Dio ha donato la regalità e il sacerdozio. Significa appartenere a Colui che Dio stesso ha unto – non con un olio materiale, ma con Colui che è rappresentato dall’olio: con il suo Santo Spirito. L’olio di oliva è così in modo del tutto particolare simbolo della compenetrazione dell’Uomo Gesù da parte dello Spirito Santo.

Nella Messa crismale del Giovedì Santo gli oli santi stanno al centro dell’azione liturgica. Vengono consacrati nella cattedrale dal Vescovo per tutto l’anno. Esprimono così anche l’unità della Chiesa, garantita dall’Episcopato, e rimandano a Cristo, il vero "pastore e custode delle nostre anime", come lo chiama san Pietro (cfr 1 Pt 2,25). E, al contempo, tengono insieme tutto l’anno liturgico, ancorato al mistero del Giovedì Santo. Infine, rimandano all’Orto degli Ulivi, in cui Gesù ha accettato interiormente la sua Passione. L’Orto degli Ulivi è però anche il luogo dal quale Egli è asceso al Padre, è quindi il luogo della Redenzione: Dio non ha lasciato Gesù nella morte. Gesù vive per sempre presso il Padre, e proprio per questo è onnipresente, sempre presso di noi. Questo duplice mistero del Monte degli Ulivi è anche sempre "attivo" nell’olio sacramentale della Chiesa. In quattro Sacramenti l’olio è segno della bontà di Dio che ci tocca: nel Battesimo, nella Cresima come Sacramento dello Spirito Santo, nei vari gradi del Sacramento dell’Ordine e, infine, nell’Unzione degli infermi, in cui l’olio ci viene offerto, per così dire, quale medicina di Dio – come la medicina che ora ci rende certi della sua bontà, ci deve rafforzare e consolare, ma che, allo stesso tempo, al di là del momento della malattia, rimanda alla guarigione definitiva, alla risurrezione (cfr Gc 5,14). Così l’olio, nelle sue diverse forme, ci accompagna lungo tutta la vita: a cominciare dal catecumenato e dal Battesimo fino al momento in cui ci prepariamo all’incontro con il Dio Giudice e Salvatore. Infine, la Messa crismale, in cui il segno sacramentale dell’olio ci viene presentato come linguaggio della creazione di Dio, si rivolge, in modo particolare, a noi sacerdoti: essa ci parla di Cristo, che Dio ha unto Re e Sacerdote – di Lui che ci rende partecipi del suo sacerdozio, della sua "unzione", nella nostra Ordinazione sacerdotale.

Vorrei quindi tentare di spiegare ancora brevemente il mistero di questo santo segno nel suo riferimento essenziale alla vocazione sacerdotale. In etimologie popolari si è collegata, già nell’antichità, la parola greca "elaion" – olio – con la parola "eleos" – misericordia. Di fatto, nei vari Sacramenti, l’olio consacrato è sempre segno della misericordia di Dio. L’unzione per il sacerdozio significa pertanto sempre anche l’incarico di portare la misericordia di Dio agli uomini. Nella lampada della nostra vita non dovrebbe mai venir a mancare l’olio della misericordia. Procuriamocelo sempre in tempo presso il Signore – nell’incontro con la sua Parola, nel ricevere i Sacramenti, nel trattenerci in preghiera presso di Lui.

Attraverso la storia della colomba col ramo d’ulivo, che annunciava la fine del diluvio e così la nuova pace di Dio con il mondo degli uomini, non solo la colomba, ma anche il ramo d’ulivo e l’olio stesso sono diventati simbolo della pace. I cristiani dei primi secoli amavano ornare le tombe dei loro defunti con la corona della vittoria e il ramo d’ulivo, simbolo della pace. Sapevano che Cristo ha vinto la morte e che i loro defunti riposavano nella pace di Cristo. Si sapevano, essi stessi, attesi da Cristo, che aveva loro promesso la pace che il mondo non è in grado di dare. Si ricordavano che la prima parola del Risorto ai suoi era stata: "Pace a voi!" (Gv 20,19). Egli stesso porta, per così dire, il ramo d’ulivo, introduce la sua pace nel mondo. Annuncia la bontà salvifica di Dio. Egli è la nostra pace. I cristiani dovrebbero quindi essere persone di pace, persone che riconoscono e vivono il mistero della Croce come mistero della riconciliazione. Cristo non vince mediante la spada, ma per mezzo della Croce. Vince superando l’odio. Vince mediante la forza del suo amore più grande. La Croce di Cristo esprime il "no" alla violenza. E proprio così essa è il segno della vittoria di Dio, che annuncia la nuova via di Gesù. Il sofferente è stato più forte dei detentori del potere. Nell’autodonazione sulla Croce, Cristo ha vinto la violenza. Come sacerdoti siamo chiamati ad essere, nella comunione con Gesù Cristo, uomini di pace, siamo chiamati ad opporci alla violenza e a fidarci del potere più grande dell’amore.

Appartiene al simbolismo dell’olio anche il fatto che esso rende forti per la lotta. Ciò non contrasta col tema della pace, ma ne è una parte. La lotta dei cristiani consisteva e consiste non nell’uso della violenza, ma nel fatto che essi erano e sono tuttora pronti a soffrire per il bene, per Dio. Consiste nel fatto che i cristiani, come buoni cittadini, rispettano il diritto e fanno ciò che è giusto e buono. Consiste nel fatto che rifiutano di fare ciò che negli ordinamenti giuridici in vigore non è diritto, ma ingiustizia. La lotta dei martiri consisteva nel loro "no" concreto all’ingiustizia: respingendo la partecipazione al culto idolatrico, all’adorazione dell’imperatore, si sono rifiutati di piegarsi davanti alla falsità, all’adorazione di persone umane e del loro potere. Con il loro "no" alla falsità e a tutte le sue conseguenze hanno innalzato il potere del diritto e della verità. Così hanno servito la vera pace. Anche oggi è importante per i cristiani seguire il diritto, che è il fondamento della pace. Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un’ingiustizia che viene elevata a diritto – per esempio, quando si tratta dell’uccisione di bambini innocenti non ancora nati. Proprio così serviamo la pace e proprio così ci troviamo a seguire le orme di Gesù Cristo, di cui san Pietro dice: "Insultato non rispondeva con insulti; maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia" (1 Pt 2,23s).

I Padri della Chiesa erano affascinati da una parola dal Salmo 45 (44) – secondo la tradizione il Salmo nuziale di Salomone –, che veniva riletto dai cristiani come Salmo per le nozze del nuovo Salomone, Gesù Cristo, con la sua Chiesa. Lì si dice al Re, Cristo: "Ami la giustizia e la malvagità detesti: Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi compagni" (v. 8). Che cosa è questo olio di letizia con cui è stato unto il vero Re, Cristo? I Padri non avevano alcun dubbio al riguardo: l’olio di letizia è lo stesso Spirito Santo, che è stato effuso su Gesù Cristo. Lo Spirito Santo è la letizia che viene da Dio. Da Gesù questa letizia si riversa su di noi nel suo Vangelo, nella buona novella che Dio ci conosce, che Egli è buono e che la sua bontà è un potere sopra tutti i poteri; che noi siamo voluti ed amati da Lui. La gioia è frutto dell’amore. L’olio di letizia, che è stato effuso su Cristo e da Lui viene a noi, è lo Spirito Santo, il dono dell’Amore che ci rende lieti dell’esistenza. Poiché conosciamo Cristo e in Cristo Dio, sappiamo che è cosa buona essere uomo. È cosa buona vivere, perché siamo amati. Perché la verità stessa è buona.

Nella Chiesa antica l’olio consacrato è stato considerato, in modo particolare, come segno della presenza dello Spirito Santo, che a partire da Cristo si comunica a noi. Egli è l’olio di letizia. Questa letizia è una cosa diversa dal divertimento o dall’allegria esteriore che la società moderna si auspica. Il divertimento, nel suo posto giusto, è certamente cosa buona e piacevole. È bene poter ridere. Ma il divertimento non è tutto. È solo una piccola parte della nostra vita, e dove esso vuol essere il tutto diventa una maschera dietro la quale si nasconde la disperazione o almeno il dubbio se la vita sia veramente buona, o se non sarebbe forse meglio non esistere invece di esistere. La gioia, che da Cristo ci viene incontro, è diversa. Essa ci dà allegria, sì, ma certamente può andar insieme anche con la sofferenza. Ci dà la capacità di soffrire e, nella sofferenza, di restare tuttavia intimamente lieti. Ci dà la capacità di condividere la sofferenza altrui e così di rendere percepibile, nella disponibilità reciproca, la luce e la bontà di Dio. Mi fa sempre riflettere il racconto degli Atti degli Apostoli secondo cui gli Apostoli, dopo che il Sinedrio li aveva fatti flagellare, erano "lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù" (At 5,41). Chi ama è pronto a soffrire per l’amato e a motivo del suo amore, e proprio così sperimenta una gioia più profonda. La gioia dei martiri era più forte dei tormenti loro inflitti. Questa gioia, alla fine, ha vinto ed ha aperto a Cristo le porte della storia. Quali sacerdoti, noi siamo – come dice san Paolo – "collaboratori della vostra gioia" (2 Cor 1,24). Nel frutto dell’ulivo, nell’olio consacrato, ci tocca la bontà del Creatore, l’amore del Redentore. Preghiamo che la sua letizia ci pervada sempre più in profondità e preghiamo di essere capaci di portarla nuovamente in un mondo che ha così urgentemente bisogno della gioia che scaturisce dalla verità. Amen.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Omelia del Papa per la Santa Messa "nella Cena del Signore"

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo giovedì pomeriggio, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, la concelebrazione della Santa Messa "nella Cena del Signore".





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Cari fratelli e sorelle,

In modo più ampio degli altri tre evangelisti, san Giovanni, nella maniera a lui propria, ci riferisce nel suo Vangelo circa i discorsi d’addio di Gesù, che appaiono quasi come il suo testamento e come sintesi del nucleo essenziale del suo messaggio. All’inizio di tali discorsi c’è la lavanda dei piedi, in cui il servizio redentore di Gesù per l’umanità bisognosa di purificazione è riassunto in un gesto di umiltà. Alla fine, le parole di Gesù si trasformano in preghiera, nella sua Preghiera sacerdotale, il cui sfondo gli esegeti hanno individuato nel rituale della festa giudaica dell’espiazione. Ciò che era il senso di quella festa e dei suoi riti – la purificazione del mondo, la sua riconciliazione con Dio – avviene nell’atto del pregare di Gesù, un pregare che, al tempo stesso, anticipa la Passione, la trasforma in preghiera. Così nella Preghiera sacerdotale si rende visibile in una maniera del tutto particolare anche il mistero permanente del Giovedì Santo: il nuovo sacerdozio di Gesù Cristo e la sua continuazione nella consacrazione degli Apostoli, nel coinvolgimento dei discepoli nel sacerdozio del Signore. Da questo testo inesauribile, in quest’ora vorrei scegliere tre parole di Gesù, che possono introdurci più profondamente nel mistero del Giovedì Santo.

Vi è innanzitutto la frase: "Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv 17, 3). Ogni essere umano vuole vivere. Desidera una vita vera, piena, una vita che valga la pena, che sia una gioia. Con l’anelito alla vita è, al contempo, collegata la resistenza contro la morte, che tuttavia è ineluttabile. Quando Gesù parla della vita eterna, Egli intende la vita autentica, vera, che merita di essere vissuta. Non intende semplicemente la vita che viene dopo la morte. Egli intende il modo autentico della vita – una vita che è pienamente vita e per questo è sottratta alla morte, ma che può di fatto iniziare già in questo mondo, anzi, deve iniziare in esso: solo se impariamo già ora a vivere in modo autentico, se impariamo quella vita che la morte non può togliere, la promessa dell’eternità ha senso. Ma come si realizza questo? Che cosa è mai questa vita veramente eterna, alla quale la morte non può nuocere? La risposta di Gesù, l’abbiamo sentita: Questa è la vita vera, che conoscano te – Dio – e il tuo Inviato, Gesù Cristo. Con nostra sorpresa, lì ci viene detto che vita è conoscenza. Ciò significa anzitutto: vita è relazione. Nessuno ha la vita da se stesso e solamente per se stesso. Noi l’abbiamo dall’altro, nella relazione con l’altro. Se è una relazione nella verità e nell’amore, un dare e ricevere, essa dà pienezza alla vita, la rende bella. Ma proprio per questo, la distruzione della relazione ad opera della morte può essere particolarmente dolorosa, può mettere in questione la vita stessa. Solo la relazione con Colui, che è Egli stesso la Vita, può sostenere anche la mia vita al di là delle acque della morte, può condurmi vivo attraverso di esse. Già nella filosofia greca esisteva l’idea che l’uomo può trovare una vita eterna se si attacca a ciò che è indistruttibile – alla verità che è eterna. Dovrebbe, per così dire, riempirsi di verità per portare in sé la sostanza dell’eternità. Ma solo se la verità è Persona, essa può portarmi attraverso la notte della morte. Noi ci aggrappiamo a Dio – a Gesù Cristo, il Risorto. E siamo così portati da Colui che è la Vita stessa. In questa relazione noi viviamo anche attraversando la morte, perché non ci abbandona Colui che è la Vita stessa.

Ma ritorniamo alla parola di Gesù: Questa è la vita eterna: che conoscano te e il tuo Inviato. La conoscenza di Dio diventa vita eterna. Ovviamente qui con "conoscenza" s’intende qualcosa di più di un sapere esteriore, come sappiamo, per esempio, quando è morto un personaggio famoso e quando fu fatta un’invenzione. Conoscere nel senso della Sacra Scrittura è un diventare interiormente una cosa sola con l’altro. Conoscere Dio, conoscere Cristo significa sempre anche amarLo, diventare in qualche modo una cosa sola con Lui in virtù del conoscere e dell’amare. La nostra vita diventa quindi una vita autentica, vera e così anche eterna, se conosciamo Colui che è la fonte di ogni essere e di ogni vita. Così la parola di Gesù diventa un invito per noi: diventiamo amici di Gesù, cerchiamo di conoscerLo sempre di più! Viviamo in dialogo con Lui! Impariamo da Lui la vita retta, diventiamo suoi testimoni! Allora diventiamo persone che amano e allora agiamo in modo giusto. Allora viviamo veramente.

Due volte nel corso della Preghiera sacerdotale Gesù parla della rivelazione del nome di Dio. "Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo" (v. 6). "Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro" (v. 26). Il Signore allude qui alla scena presso il roveto ardente, dal quale Dio, alla domanda di Mosè, aveva rivelato il suo nome. Gesù vuole quindi dire che Egli porta a termine ciò che era iniziato presso il roveto ardente; che in Lui Dio, che si era fatto conoscere a Mosè, ora si rivela pienamente. E che con ciò Egli compie la riconciliazione; che l’amore con cui Dio ama suo Figlio nel mistero della Trinità, coinvolge ora gli uomini in questa circolazione divina dell’amore. Ma che cosa significa più precisamente che la rivelazione dal roveto ardente viene portata a termine, raggiunge pienamente la sua meta? L’essenziale dell’avvenimento al monte Oreb non era stata la parola misteriosa, il "nome", che Dio aveva consegnato a Mosè, per così dire, come segno di riconoscimento. Comunicare il nome significa entrare in relazione con l’altro. La rivelazione del nome divino significa dunque che Dio, che è infinito e sussiste in se stesso, entra nell’intreccio di relazioni degli uomini; che Egli, per così dire, esce da se stesso e diventa uno di noi, uno che è presente in mezzo a noi e per noi. Per questo in Israele sotto il nome di Dio non si è visto solo un termine avvolto di mistero, ma il fatto dell’essere-con-noi di Dio. Il Tempio, secondo la Sacra Scrittura, è il luogo in cui abita il nome di Dio. Dio non è racchiuso in alcuno spazio terreno; Egli rimane infinitamente al di sopra del mondo. Ma nel Tempio è presente per noi come Colui che può essere chiamato – come Colui che vuol essere con noi. Questo essere di Dio con il suo popolo si compie nell’incarnazione del Figlio. In essa si completa realmente ciò che aveva avuto inizio presso il roveto ardente: Dio quale Uomo può essere da noi chiamato e ci è vicino. Egli è uno di noi, e tuttavia è il Dio eterno ed infinito. Il suo amore esce, per così dire, da se stesso ed entra in noi. Il mistero eucaristico, la presenza del Signore sotto le specie del pane e del vino è la massima e più alta condensazione di questo nuovo essere-con-noi di Dio. "Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele", ha pregato il profeta Isaia (45,15). Ciò rimane sempre vero. Ma al tempo stesso possiamo dire: veramente tu sei un Dio vicino, tu sei un Dio-con-noi. Tu ci hai rivelato il tuo mistero e ci hai mostrato il tuo volto. Tu hai rivelato te stesso e ti sei dato nelle nostre mani… In quest’ora deve invaderci la gioia e la gratitudine perché Egli si è mostrato; perché Egli, l’Infinito e l’Inafferrabile per la nostra ragione, è il Dio vicino che ama, il Dio che noi possiamo conoscere ed amare.

La richiesta più nota della Preghiera sacerdotale è la richiesta dell’unità per i discepoli, per quelli di allora e quelli futuri: "Non prego solo per questi – la comunità dei discepoli radunata nel Cenacolo – ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (v. 20s; cfr vv. 11 e 13). Che cosa chiede precisamente qui il Signore? Innanzitutto, Egli prega per i discepoli di quel tempo e di tutti i tempi futuri. Guarda in avanti verso l’ampiezza della storia futura. Vede i pericoli di essa e raccomanda questa comunità al cuore del Padre. Egli chiede al Padre la Chiesa e la sua unità. È stato detto che nel Vangelo di Giovanni la Chiesa non compare. Qui, invece, essa appare nelle sue caratteristiche essenziali: come la comunità dei discepoli che, mediante la parola apostolica, credono in Gesù Cristo e così diventano una cosa sola. Gesù implora la Chiesa come una ed apostolica. Così questa preghiera è propriamente un atto fondante della Chiesa. Il Signore chiede la Chiesa al Padre. Essa nasce dalla preghiera di Gesù e mediante l’annuncio degli Apostoli, che fanno conoscere il nome di Dio e introducono gli uomini nella comunione di amore con Dio. Gesù chiede dunque che l’annuncio dei discepoli prosegua lungo i tempi; che tale annuncio raccolga uomini i quali, in base ad esso, riconoscono Dio e il suo Inviato, il Figlio Gesù Cristo. Egli prega affinché gli uomini siano condotti alla fede e, mediante la fede, all’amore. Egli chiede al Padre che questi credenti "siano in noi" (v. 21); che vivano, cioè, nell’interiore comunione con Dio e con Gesù Cristo e che da questo essere interiormente nella comunione con Dio si crei l’unità visibile. Due volte il Signore dice che questa unità dovrebbe far sì che il mondo creda alla missione di Gesù. Deve quindi essere un’unità che si possa vedere – un’unità che vada tanto al di là di ciò che solitamente è possibile tra gli uomini, da diventare un segno per il mondo ed accreditare la missione di Gesù Cristo. La preghiera di Gesù ci dà la garanzia che l’annuncio degli Apostoli non potrà mai cessare nella storia; che susciterà sempre la fede e raccoglierà uomini nell’unità – in un’unità che diventa testimonianza per la missione di Gesù Cristo. Ma questa preghiera è sempre anche un esame di coscienza per noi. In quest’ora il Signore ci chiede: vivi tu, mediante la fede, nella comunione con me e così nella comunione con Dio? O non vivi forse piuttosto per te stesso, allontanandoti così dalla fede? E non sei forse con ciò colpevole della divisione che oscura la mia missione nel mondo; che preclude agli uomini l’accesso all’amore di Dio? È stata una componente della Passione storica di Gesù e rimane una parte di quella sua Passione che si prolunga nella storia, l’aver Egli visto e il vedere tutto ciò che minaccia, distrugge l’unità. Quando noi meditiamo sulla Passione del Signore, dobbiamo anche percepire il dolore di Gesù per il fatto che siamo in contrasto con la sua preghiera; che facciamo resistenza al suo amore; che ci opponiamo all’unità, che deve essere per il mondo testimonianza della sua missione.

In quest’ora, in cui il Signore nella Santissima Eucaristia dona se stesso – il suo corpo e il suo sangue –, si dà nelle nostre mani e nei nostri cuori, vogliamo lasciarci toccare dalla sua preghiera. Vogliamo entrare noi stessi nella sua preghiera, e così lo imploriamo: Sì, Signore, donaci la fede in te, che sei una cosa sola con il Padre nello Spirito Santo. Donaci di vivere nel tuo amore e così diventare una cosa sola come tu sei una cosa sola con il Padre, perché il mondo creda. Amen.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Omelia nel Giovedì Santo del Patriarca latino di Gerusalemme
Per la Messa della Cena del Signore nel Santo Sepolcro

GERUSALEMME, giovedì, 1° aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'omelia pronunciata questo Giovedì Santo, nel Santo Sepolcro, da Sua Beatitudine Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme, nel presiedere la Messa della Cena del Signore, alla presenza di circa duecento sacerdoti e di una folla di pellegrini.




* * *


Questo è il mio Corpo … Fate questo in memoria di Me” (Lc 22:19)
Cari Fratelli nel Sacerdozio, … Fate questo in memoria di Me”
 (Lc 22:19)


Cari Fratelli nel Sacerdozio,
Care sorelle, cari fratelli,
In questa Città Santa, nel Cenacolo, il Signore Gesù prese del pane e del vino. Cambiando la preghiera rituale, Egli proclamò che il suo Corpo, significato dal pane, sarebbe stato offerto per noi e che il suo Sangue, significato dal vino sarebbe stato sparso per noi e per la remissione dei peccati.

In qualità di Eterno Sommo Sacerdote, “secondo l’ordine di Melchisedek”, Egli offrì non un sacrificio animale, ma uno spirituale. La sua totale obbedienza al Padre, manifestata attraverso l’accettazione della morte in croce, sarebbe stata l’unico sacrificio della Nuova Alleanza. Nei racconti dei Vangeli e negli altri scritti del Nuovo Testamento il Sacerdozio di Gesù, annunciato nell’Ultima Cena, troverà il suo compimento sul Calvario, a pochi da questa tomba vuota, davanti alla quale ora ci troviamo.

Più che mai in quest’anno, proclamato il 19 giugno 2009 da Sua Santità il Papa Benedetto XVI “Anno Sacerdotale”, siamo sollecitati a riflettere sul Sacerdozio di Cristo, alla luce delle parole di Eb 5,1ss, e sul nostro sacerdozio. Nell’Antica Alleanza i sacerdoti, presi da una sola tribù, immolavano vittime nel Tempio. Il nostro Sommo Sacerdote “non ha chiesto sacrifici né olocausti”, ma ha offerto la sua stessa vita per noi. Gesù, come afferma S. Agostino, fu ed è “nello stesso tempo Sacerdote, Vittima e altare”. Allo stesso modo, a noi è donato e chiesto di ripetere il Suo gesto, offrendo, come Melchisedek, pane e vino. A noi è inoltre chiesto di proclamare in prima persona e a far sì che i nostri fedeli proclamino con noi “la Sua morte finchè Egli venga ogni volta che noi mangiamo questo pane e beviamo questo calice” (1 Cor 11,26).

Nella Lettera di indizione dell’Anno dei Sacerdoti il Santo Padre cita le parole di san Giovanni Maria Vianney: “Il sacerdozio è l’amore del Cuore di Gesù”, sottolineando che si tratta in primo luogo del Cuore trafitto sulla Croce. I sacerdoti della Nuova Alleanza, “vasi di creta”, consapevoli della loro debolezza, sanno di essere amici di Cristo e non suoi schiavi. Essi sono ministri di una Nuova Alleanza (2 Cor 3,6), che hanno ricevuto misericordia (2 Cor 4,1) e così possono servire Dio e il suo gregge con amore e non nella paura (1 Cor 4,1).

Il sacerdozio di Cristo, nonostante i nostri limiti umani, ci costituisce nella dignità di offrire noi stessi “in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”, espressione del nostro culto spirituale, cioè razionale (cfr Rm 12,1-2). Senza il sacerdozio, quindi, “non potremmo avere il Signore con noi”, secondo le parole del santo curato d’Ars! E il Papa drammaticamente aggiunge che “senza sacerdozio la passione e la morte di Cristo rimarrebbero per noi inaccessibili”, quasi un semplice ricordo di un passato lontano, senza alcuna attualità ed efficacia nelle nostre esistenze. Ecco invece che attraverso le parole della consacrazione trova compimento la profezia di Malachia (1,11): “Dall’oriente all’occidente il Nome del Signore è grande fra le genti e dovunque un sacrificio e un’oblazione pura è offerto al mio Nome”. Si, senza sacerdozio l’opera della Redenzione non continua e non ha alcuna efficacia.

In quest’anno, inoltre, la Chiesa deplora le debolezze, le deviazioni e gli abusi dei sacerdoti per i quali anche noi chiediamo perdono. Tali fatti spiacevoli provano che “noi abbiamo questo tesoro in vasi di argilla e che quest’autorità straordinaria viene da Dio e non da noi” (2 Cor 4,7). L’ammissione delle nostre debolezze, imperfezioni e limiti – come afferma il Santo Padre – costituisce il primo e più importante passo. La nostra confessione e umiltà offrono un buon esempio. Il perdono del Signore e la comprensione del gregge ci aiutano e ci incoraggiano ad essere “una cosa sola con Cristo”, ad essere “altri Cristi”.

Cari fratelli e sorelle, è in questa città di Gerusalemme che il Signore Gesù ha istituito il sacerdozio in vita del ministero della Nuova Alleanza, secondo lo Spirito e non secondo la lettera, insieme al sacerdozio regale di ogni battezzato, uomo e donna, secondo le parole della 1 Pt 2,9. Grazie al battesimo, infatti, noi tutti siamo sacerdoti, profeti e re, rigenerati nell’acqua e nello SpiritoSanto, come figli spirituali di questa nuova Gerusalemme, aperta a tutti i popoli (cfr Is 2,2-3;Sal 87[86],5). Questo sacerdozio regale abilita ogni fedele ad offrire al Signore il sacrificio di lode, la propria vita, le sofferenze e i meriti quali oblazione spirituale gradita a Dio.

Spiritualmente uniti a tutti i sacerdoti e religiosi del mondo, in comunione con i nostri sacerdoti, religiosi e religiose e con tutti i fedeli che non hanno potuto essere qui con noi oggi, ringraziamo il Signore per il dono del nostro sacerdozio e per il dono dell’Eucaristia. Ringraziamo anche per il privilegio di vivere in questi luoghi santi.

Rinnoviamo insieme la nostra alleanza con il Signore e il nostro amore per Lui. Questo rinnovamento esprime la nostra ferma volontà di rimanerGli fedele ogni giorno e per sempre e significa anche la continua protezione del Signore, perché è Lui il nostro Dio e noi siamo i suoi ministri e rappresentanti. In verità, noi lavoriamo per Lui, agiamo in Nome suo e per il bene del Suo popolo, riscattato dal suo sangue prezioso. Diciamo ancora “si”, ripetendo le promesse della nostra ordinazione sacerdotale e della nostra consacrazione.

Cari Sacerdoti e Religiosi, oggi è il vostro giorno. E’ la vostra festa. Gioiamo insieme nel Signore. “Haec est dies quam fecit Dominus: Exultemus et laetemur in ea”. Amen!

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