lunedì 21 dicembre 2009

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Servizio quotidiano - 21 dicembre 2009

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Per il Papa, il 2009 è stato un anno "nel segno dell'Africa"
Spiega nel discorso alla Curia Roma

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Compiendo un bilancio del 2009, Benedetto XVI ha affermato che è stato un anno vissuto “nel segno dell'Africa”, grazie non solo al primo viaggio che ha compiuto nel continente come Pontefice, ma anche al Sinodo africano.

Com'è tradizione, il Pontefice ha approfittato dell'udienza che ha concesso questo lunedì ai suoi collaboratori della Curia Romana per ripercorrere alcuni dei grandi avvenimenti del suo ministero e della vita della Chiesa negli ultimi dodici mesi.

Il continente africano ha occupato il passo più lungo dell'atteso discorso, iniziando dal viaggio in Camerun e all'Angola che ha svolto dal 17 al 23 marzo, sottolineando innanzitutto la “gioia festosa e l'affetto cordiale” con cui è stato ricevuto.

Il Papa ha confessato di essere ancora oggi colpito dalle celebrazioni liturgiche che ha vissuto in Africa, “vere feste della fede”.

In particolare, ha menzionato due elementi che gli sono sembrati “particolarmente importanti”.

“C'era innanzitutto una grande gioia condivisa, che si esprimeva anche mediante il corpo, ma in maniera disciplinata ed orientata dalla presenza del Dio vivente”, ha ricordato. L'altro elemento era invece “il senso della sacralità, del mistero presente del Dio vivente” che “plasmava, per così dire, ogni singolo gesto”.

Parlando poi del Sinodo dei Vescovi dell'Africa, che si è celebrato dal 4 al 25 ottobre in Vaticano, avvenimento in cui “è emersa ancora più fortemente l’importanza della collegialità – dell’unità dei Vescovi, che ricevono il loro ministero proprio per il fatto che entrano nella comunità dei Successori degli Apostoli: ognuno è Vescovo, Successore degli Apostoli, solo in quanto partecipe della comunità di coloro nei quali continua il Collegium Apostolorum nell’unità con Pietro e col suo Successore”.

Per quanto riguarda il tema del Sinodo, “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”, il Pontefice ha riflettuto soprattutto sulla parola “riconciliazione”.

“Uno sguardo sulle sofferenze e pene della storia recente dell'Africa, ma anche in molte altre parti della terra, mostra che contrasti non risolti e profondamente radicati possono portare, in certe situazioni, ad esplosioni di violenza in cui ogni senso di umanità sembra smarrito”, ha sottolineato.

“Riconciliazione è un concetto pre-politico e una realtà pre-politica, che proprio per questo è della massima importanza per il compito della stessa politica. Se non si crea nei cuori la forza della riconciliazione, manca all’impegno politico per la pace il presupposto interiore”.

“Nel Sinodo i Pastori della Chiesa si sono impegnati per quella purificazione interiore dell’uomo che costituisce l’essenziale condizione preliminare per l’edificazione della giustizia e della pace. Ma tale purificazione e maturazione interiore verso una vera umanità non possono esistere senza Dio”, ha concluso evocando l'assise dei Vescovi africani.

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Il Papa ancora commosso per la sua visita allo Yad Vashem
"Un incontro sconvolgente con la crudeltà della colpa umana"

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha confessato la commozione che ancora gli suscita la visita che ha compiuto l'11 maggio in occasione della sua prima visita in Terra Santa come Papa.

Compiendo un bilancio dei grandi avvenimenti del 2009, il Pontefice ha voluto sottolineare la sua vicinanza al popolo di Israele, vittima della barbarie nazista, in un momento in cui gli esponenti ebrei non hanno accolto positivamente l'annuncio del riconoscimento delle virtù eroiche di Pio XII.

“La visita a Yad Vashem ha significato un incontro sconvolgente con la crudeltà della colpa umana, con l’odio di un’ideologia accecata che, senza alcuna giustificazione, ha consegnato milioni di persone umane alla morte e che con ciò, in ultima analisi, ha voluto cacciare dal mondo anche Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e il Dio di Gesù Cristo”, ha spiegato questo lunedì il Santo Padre ai membri della Curia Romana.

Nel luogo in cui si conservano le urne con le ceneri di alcune vittime della Shoah, il Papa ha ascoltato con attenzione i terribili racconti di sei sopravvissuti all'Olocausto.

In quella storica visita, ha anche chiesto di non negare e non dimenticare il grido dei milioni di vittime di quell'orrore.

“Così questo è in primo luogo un monumento commemorativo contro l’odio, un richiamo accorato alla purificazione e al perdono, all’amore”, ha detto ai suoi collaboratori.

Nel suo discorso, il Papa ha anche chiesto la “la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani”, “il rispetto nei confronti della religione dell’altro” e “la collaborazione nella comune responsabilità davanti a Dio”.

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Consapevole o ignaro, l'uomo è al cospetto di Dio
Il direttore de "L'Osservatore Romano" commenta il messaggio papale alla Curia

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- La preoccupazione principale di Benedetto XVI è testimoniare che l'uomo, consapevolmente o meno, è al cospetto di Dio.

E' il commento del direttore de “L'Osservatore Romano”, Giovanni Maria Vian, al discorso di Benedetto XVI ai membri della Curia Romana e del Governatorato per la presentazione degli auguri natalizi, pronunciato questo lunedì mattina nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano.

Vian ha ricordato che il Vescovo di Roma ha riletto l'anno che sta per finire “in una luce che può sorprendere ma che è l'unica vera, e cioè 'al cospetto di Dio'”.

“Il Papa ha scelto i tre grandi viaggi internazionali dell'anno - in Africa, in Terra Santa, nel cuore dell'Europa - per svolgere una riflessione sull'essere umano che, consapevole o ignaro, sta appunto davanti a Dio”, ha spiegato riferendosi alle visite in Camerun e Angola, in Terra Santa e nella Repubblica Ceca.

“Il Papa coglie l'essenziale, senza però attenuare un realismo attento che troppo spesso manca a governanti e politici”, ha dichiarato Vian, osservando che questo realismo è “la principale caratteristica dell'Enciclica Caritas in Veritate, così come lo è stato dell'assemblea sinodale, che tuttavia non si è arrogata competenze politiche improprie”.

A suo avviso, “l'essenziale sta nel fatto che il cielo non è più chiuso e che Dio è vicino”. Per questo, ha constatato, “i cattolici africani vivono ogni giorno il senso della sacralità, hanno accolto il primato pontificio come evidente 'punto di convergenza per l'unità della Famiglia di Dio' e celebrano liturgie gioiose e composte che hanno richiamato a Benedetto XVI la sobria ebrietas cara al misticismo antico, giudaico e cristiano”.

Il direttore del quotidiano vaticano prosegue ricordando l'importanza che Benedetto XVI attribuisce alla riconciliazione, che “è quella urgente in Africa come in ogni altra società, secondo un processo che può trarre esempio da quello avviato in Europa dopo la tragedia dell'ultima guerra mondiale”.

La riconciliazione, aggiunge, “si realizza, prima di tutto, nel sacramento della penitenza, in gran parte scomparso nelle abitudini dei cristiani perché si è perduta 'la veracità nei confronti di noi stessi e di Dio', mettendo a rischio l'umanità e la capacità di pace”.

Di fronte al male, sottolinea, “bisogna restare vigili”, ed è per questo che secondo lui il Papa è tornato nel suo discorso sulla “sconvolgente” visita compiuta allo Yad Vashem di Gerusalemme, il Memoriale che ricorda “lo sterminio di sei milioni di ebrei e la volontà di cacciare dal mondo il Dio di Abramo e di Gesù”.

L'immagine “che più colpisce e che resterà di questo grande discorso papale”, però, è quella del “cortile dei gentili”, riservato nel Tempio di Gerusalemme ai pagani che volevano pregare l'unico Dio e che Gesù volle sgomberare da chi l'aveva trasformato in “un covo di ladri”.

“A imitazione di Cristo anche oggi - ha detto Benedetto XVI - la Chiesa dovrebbe aprire uno spazio per tutti i popoli e per quanti conoscono Dio da lontano o per i quali è sconosciuto o estraneo”, conclude Vian. “Per aiutarli ad 'agganciarsi a Dio', al cui cospetto sta ogni creatura umana”.

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Portavoce vaticano: un Natale per superare i muri di Betlemme
Ricorda la visita del Papa alla città natale di Gesù, il 13 maggio

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Il portavoce vaticano considera che questo Natale deve servire da impulso a superare le divisioni che vive Betlemme, separata dal muro e dalla divisione tra i cristiani.

Padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, compie questa riflessione nell'ultimo numero del settimanale “Octava Dies”, prodotto dal Centro Televisivo Vaticano, in cui ricorda la visita che Benedetto XVI ha realizzato a Betlemme il 13 maggio scorso.

Anche il Papa l'ha ricordata questo lunedì, riconoscendo che gli ha fatto “conoscere le sofferenze come anche le speranze del suo Territorio”. “Tutto ciò che si può vedere in quei Paesi invoca riconciliazione, giustizia, pace”, ha detto il Pontefice.

Padre Lombardi ricorda “la festosa celebrazione della Messa nell'affollatissima Piazza della Mangiatoia”, presieduta dal Papa.

“Anche se in un contesto tanto diverso da quello del presepio di duemila anni fa, è poi sempre l’Eucarestia il momento in cui si rivive il mistero della presenza reale di Gesù con noi”, aggiunge.

“Ma è difficile non ricordare il passaggio e l’incombere del muro – riconosce –. Giustamente a sera congedandosi il Papa diceva: 'Tutti sappiamo che i muri non durano per sempre. Possono essere abbattuti. Innanzitutto però è necessario rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo'”.

“Il Papa è stato a pregare nella grotta, ma anche lì – come negli altri luoghi santi – si avverte che i cristiani non sono uniti fra loro: devono dividersi luoghi e tempi di competenza per evitare le liti! Quando riusciremo a superare le nostre divisioni?”, si chiede il portavoce.

“Ma il ricordo più tenero è quello dei piccoli bimbi malati del Caritas Baby Hospital nelle mani del Papa. Fragilità infinita dell'umanità! Forza misteriosa ed invincibile dell'amore!”, esclama Lombardi.

“Quanto è fragile Gesù che nasce a Betlemme, ma quanto è forte il messaggio di amore! Amore che ci viene offerto, ma ci viene anche chiesto con urgenza da questa fragilità! Quale intelligenza umana avrebbe potuto immaginare questo incredibile messaggio? Andiamo a vedere il bambino: Dio è ancora con noi” propone il portavoce vaticano.

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Uomini e donne di fede


Fra' Leopoldo de Alpandeire, l'umile elemosiniere delle tre Ave Marie
Sarà beatificato nel settembre 2010

GRANADA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Fra' Leopoldo de Alpandeire, l'umile elemosiniere delle tre Ave Marie, sarà beatificato a Granada il 12 settembre 2010, ha reso noto durante una conferenza stampa l'Arcivescovo della Diocesi andalusa, monsignor Javier Martínez.

Papa Benedetto XVI ha autorizzato questo sabato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto di riconoscimento di un miracolo attribuito alla sua intercessione.

L'Arcivescovado di Granada sta cercando un luogo ampio per la celebrazione, visto che si attende la partecipazione di un numero di pellegrini compreso tra i 300.000 e un milione.

Il cappuccino era molto stimato già in vita per il suo contatto con la gente nelle strade visto che era elemosiniere, e continua a suscitare ancora oggi una grande devozione popolare.

Alla cerimonia di beatificazione si attende la presenza dell'Arcivescovo di Boston, il Cardinale Sean Patrick O'Malley, dell'Ordine cappuccino, e del prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, l'Arcivescovo Angelo Amato, così come di numerosi Vescovi spagnoli.

La notte precedente, la Cattedrale di Granada accoglierà una veglia, e il giorno dopo si celebrerà un'Eucaristia di azione di grazie.

L'Arcivescovado presenterà una biografia del nuovo beato e monsignor Martínez scriverà una lettera pastorale sulla figura dell'umile frate.

“La vita umana merita di essere vissuta, non in funzione dell'interesse, che distrugge, ma quando è piena d'amore, perché costruisce relazioni umane autentiche”, ha affermato l'Arcivescovo di Granada nella conferenza stampa.

“E' ciò che conta nella figura di fra' Leopoldo – ha aggiunto –. I santi servono a insegnarci a vivere”.

Il presule ha indicato che “la Chiesa propone i santi alla Chiesa stessa e al mondo come modelli di vita, non come stelle del cinema da applaudire”.

“Ci mostrano una via di fedeltà al Vangelo, a volte nei loro scritti e altre volte in modo straordinariamente semplice nella loro vita, ma sempre per indicare che il cammino della vita è grande quando è piena d'amore e quando si dona”.

Fra' Leopoldo, che prima di vestire l'abito cappuccino si chiamava Francisco Tomás Márquez Sánchez, nacque nella località di Alpandeire il 24 giugno 1864. Crebbe in una famiglia di cristiani agricoltori e trascorse 35 anni tra lavoro dei campi, vita familiare e di pietà e preghiera.

Fin da piccolo aiutava i poveri. Condivideva la sua merenda con altri pastorelli più poveri di lui, dava le sue scarpe ai bisognosi o consegnava il denaro guadagnato nella vendemmia di Jerez ai poveri che incontrava sulla via del ritorno al suo paese. “Dio dà per tutti”, disse anni dopo.

Dopo aver sentito predicare due cappuccini nella località di Ronda, vicino a casa sua, in occasione delle feste del 1894 per celebrare la beatificazione del cappuccino Diego José de Cádiz, il giovane Francisco Tomás rispose alla chiamata a diventare cappuccino.

Comunicò il suo desiderio a quegli stessi predicatori, ma dovette aspettare alcuni anni per certe negligenze e dimenticanze nell'iter di ammissione.

Il 16 novembre 1899 vestì l'abito nel Convento di Siviglia. Il suo nuovo nome, scelto dal suo maestro dei novizi, non gli piacque perché non era comune tra i membri dell'Ordine, ma rappresentò un'opportunità per seguire Cristo sulla via della croce.

Il 16 novembre 1900 fece la sua prima professione e da allora visse brevi stagioni, come contadino, nei conventi di Siviglia, Antequera e Granada.

Il 23 novembre 1903 emise i primi voti perpetui a Granada, e il 21 febbraio 1914 si insediò definitivamente nel convento di Granada.

Lavorò prima nell'orto, poi come sagrestano ed elemosiniere, compiti che gli permisero di unire la dimensione contemplativa alla vita attiva andando e venendo per le vie e avendo grandi contatti con la gente.

Era sempre più conosciuto dal popolo, visto il suo lavoro di andare a trovare e ripartire l'elemosina ai poveri che mendicavano al convento.

In occasione delle nozze d'oro della sua vita religiosa, sapendo che l'evento era arrivato alla stampa, confessò a un compagno: “Che noia, fratello! Siamo diventati religiosi per servire Dio nell'oscurità e ci mettono sul giornale!”.

Nelle vie di Granada si fermava con i bambini per spiegare loro il catechismo, e con i più grandi per parlare delle loro preoccupazioni.

Fra' Leopoldo aveva trovato un modo di diffondere su tutti la bontà divina: recitava tre Ave Marie per unire l'umano con il divino e la gente si allontanava da lui trasformata, con la tranquillità di sapere che Dio aveva preso nota delle loro preoccupazioni.

Ebbe alcuni problemi di salute che si sforzava di nascondere e dissimulare, soprattutto un'ernia e geloni ai piedi che sanguinavano abbondantemente.

A 89 anni cadde e tornò al convento per non uscire più e dedicarsi totalmente a Dio fino alla morte, avvenuta il 9 febbraio 1956.

Lo spiega il vicepostulatore della sua causa, il cappuccino Alfonso Ramírez Peralbo, in una pagina web sul frate che invita a visitare virtualmente il luogo di pellegrinaggio che è diventata la tomba di fra' Leopoldo.

La notizia della sua morte commosse tutta la città di Granada. Una folla immensa accorse al convento dei cappuccini per dargli l'estremo saluto.

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Notizie dal mondo


Un sacerdote muore assassinato in Colombia
Padre Emiro Jaramillo non aveva ricevuto alcun tipo di minaccia

SANTA ROSA DE OSOS, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Il sacerdote colombiano Emiro Jaramillo Cárdenas è stato assassinato all'alba di questa domenica nel suo appartamento, nella località di Santa Rosa de Osos, a 74 chilometri dalla città di Medellín.

Secondo chi lo conosceva, il religioso, che era rettore della cappella El Señor de La Humildad, non aveva ricevuto alcun tipo di minaccia.

Il suo corpo è stato rinvenuto da un familiare che, stupito perché tardava ad arrivare in cappella, è andato da lui. Ha trovato la porta dell'appartamento accostata ed entrando ha visto il cadavere, che presentava ferite da arma bianca.

Il Vescovo della Diocesi di Santa Rosa de Osos, monsignor Jairo Jaramillo Monsalve, ha espresso in un comunicato il suo dolore e l'indignazione per la morte del sacerdote. “La Diocesi si unisce alla sua famiglia respingendo questo atto di barbarie e pregando per il suo riposo eterno”, ha dichiarato.

Sul fatto si è pronunciato anche il sindaco di Santa Rosa de Osos: “Siamo costernati per questa situazione perché la comunità amava molto padre Cárdenas per il suo aiuto e la sua dedizione”.

Padre Jaramillo era anche direttore dell'archivio diocesano. “Amava molto la storia. Era membro del Centro Storico di Santa Rosa de Osos. Era anche assessore permanente in tutti i processi della Diocesi”, ha dichiarato Fabían Rendón Ospina, direttore di comunicazioni della Diocesi.

Padre Emiro Jaramillo era nato nel 1936 ed era stato ordinato sacerdote nel 1966. Dal 1999 aveva lavorato per recuperare la cappella del Señor de la Humildad, un luogo pieno di storia e spiritualità oggi molto amato dai fedeli della località. Fino a quell'anno era stato utilizzato come bottega.

Attualmente decine di sacerdoti colombiani svolgono il proprio servizio sotto la minaccia di gruppi armati. 17 Vescovi ricevono protezione da parte della Polizia. All'inizio di questo mese, il Vescovo ausiliare di Medellín, monsignor Víctor Manuel Ochoa, ha ricevuto minacce di morte.

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Caritas Congo lavora per evitare un altro massacro a Natale
Avverte della mancanza di volontà politica per difendere le comunità

ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- La Caritas della Repubblica Democratica del Congo ha avvertito della mancanza della volontà politica di difendere le comunità della regione settentrionale del Paese ed esorta il Governo congolese, l'ONU e la comunità internazionale a dare la massima priorità alla sicurezza delle persone di quelle zone di fronte agli attacchi ribelli.

Quasi un anno dopo che i ribelli dell'Esercito di Resistenza del Signore (LRA) hanno ucciso 620 persone di diverse comunità del nord del Congo che celebravano il Natale, gli abitanti continuano a temere di essere mutilati, assassinati o violentati dai ribelli.

“Un anno dopo, le comunità continuano a non avere protezione, cibo e assistenza sanitaria. Il Governo e la comunità internazionale devono agire senza indugi per garantire la sicurezza e raggiungere la pace nella regione”, ha segnalato Bruno Miteyo, direttore di Caritas Congo.

L'insicurezza nel nord del Paese si inserisce in una situazione regionale di instabilità che deve essere affrontata. Per la Caritas sono fondamentali la trasparenza e il coordinamento a livello regionale per creare un ambiente che permetta di lottare contro l'impunità.

“I dirigenti di Congo, Uganda, Sudan e Ruanda devono intavolare negoziati per raggiungere una pace duratura – ha aggiunto Miteyo –. La comunità internazionale deve sforzarsi al massimo per impedire l'arrivo delle armi nella regione”.

Rinnovo del mandato del MONUC

Il mandato delle forze dell'ONU in Congo (MONUC) deve essere rinnovato questo mese e ci sono dubbi sulla possibilità di prolungarlo - visto che costa 1.350 milioni di dollari all'anno - solo per un periodo di sei mesi anziché di un anno e in vista di un suo possibile ritiro.

Caritas Congo afferma ch il MONUC non è riuscito a garantire la difesa dei civili congolesi in situazione di pericolo e che queste persone continuano ad essere estremamente vulnerabili.

L'ampiezza e la complessità della crisi in Congo richiede una missione di mantenimento della pace più esaustiva, che renda prioritaria la tutela dei civili. Ogni forza di mantenimento della pace deve svolgere un'azione critica nella formazione delle forze di polizia locali, perché siano capaci di mantenere una situazione di stabilità e di difendere le comunità.

La costante situazione di insicurezza che si vive nel nord del Congo ostacola l'accesso delle comunità ai beni e ai servizi di prima necessità. Per questo, la Caritas esorta i Governi a garantire la creazione di un corridoio di aiuti tra il nord del Congo e i Paesi vicini per assicurare la distribuzione di cibo e di altro materiale essenziale.

Nuovo programma di emergenza per 230.000 persone

La Caritas ha anche avviato nel giugno scorso un programma di emergenza nella zona settentrionale e in quella orientale del Paese per un valore di 8,5 milioni di euro, garantendo vestiario, utensili agricoli e prodotti igienici a più di 230.000 persone.

Il programma si è concentrato anche sul miglioramento dell'istruzione e delle condizioni sanitarie, e ha fornito assistenza psicologica alle vittime della violenza.



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Nazareth: scoperta per la prima volta una casa dei tempi di Gesù
Il ritrovamento permette di capire com

di Jesús Colina



NAZARETH, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Per la prima volta è stata scoperta una casa dei tempi di Gesù accanto alla Basilica dell'Annunciazione di Nazareth, un evento archeologico senza precedenti che permette di comprendere lo stile di vita di quell'epoca nella località.

I resti sono apparsi durante gli scavi svolti dall'Autorità per le Antichità di Israele in occasione della costruzione del Centro Internazionale Maria di Nazareth, situato nella zona in cui secondo la tradizione visse Cristo.

I risultati sono stati presentati durante una conferenza stampa svoltasi questo lunedì mattina nei locali del futuro Centro da Dror Barshod, direttore per il Distretto Nord dell'Autorità per le Antichità di Israele, accompagnato da Yardenna Alexandre, responsabile di questi scavi archeologici, e da esperti francescani.

Secondo quanto spiega un comunicato stampa dell'Autorità per le Antichità, “resti di una casa che risale al periodo romano sono stati scoperti per la prima volta negli scavi compiuti in occasione della costruzione del Centro Internazionale Maria di Nazareth, accanto alla Basilica dell'Annunciazione”.

“Gesù ha sicuramente conosciuto questo luogo e forse questa casa”, aggiunge in un comunicato l'Associazione Maria di Nazareth, istituzione che promuove la costruzione del Centro. Quest'ultimo sorge proprio di fronte alla Basilica, situata nel luogo in cui secondo la tradizione cattolica si trovava la casa della Vergine Maria.

Secondo la direttrice degli scavi Yardenna Alexandre, “il ritrovamento ha un'importanza capitale, perché scopre per la prima volta una casa del popolo ebraico di Nazareth e permette di riportare alla luce lo stile di vita dei tempi di Gesù”.

“L'edificio che abbiamo trovato è piccolo e modesto – ha spiegato l'archeologa – e quasi sicuramente è un tipico esempio delle case di Nazareth di quell'epoca. Secondo le rare fonti scritte esistenti, sappiamo che nel primo secolo della nostra era Nazareth era un piccolo villaggio ebraico, situato in una valle. Finora era stato trovato anche un certo numero di tombe dell'epoca di Gesù, ma non si era mai scoperto alcun resto che potesse essere attribuito a questo periodo”.

Nella casa, ricorda l'Autorità per le Antichità di Israele, sono stati rinvenuti alcuni oggetti, per la maggior parte frammenti di ceramica dell'epoca romana (I e II secolo), in particolare oggetti “utilizzati solo da ebrei in quel periodo, perché questi recipienti non sono suscettibili di trasformarsi ritualmente in impuri”.

La Alexandre ha rivelato di aver trovato nella casa una fossa realizzata probabilmente nel contesto dei preparativi compiuti dagli ebrei per difendersi dalla grande rivolta contro i romani, nel 67 d.C.

L'attuale Basilica di Nazareth, costruita nel 1969, si eleva sui resti di tre chiese precedenti, la più antica delle quali risale al periodo bizantino (IV secolo).

In questo luogo si trova una grotta che, come ricorda l'Autorità, “nell'antichità è stata attribuita alla famiglia di Gesù”.

Secondo l'Autorità, “l'associazione Maria di Nazareth vuole conservare e presentare i resti della casa scoperta all'interno dell'edificio che si trasformerà nel Centro Internazionale Maria di Nazaret”, che verrà inaugurato alla fine del 2010.

Il Centro proporrà agli abitanti della Terra Santa, ai turisti e ai pellegrini un percorso multimediale per aiutare a comprendere il ruolo di Maria di Nazareth nella fede cristiana.

Questo progetto è cattolico con vocazione ecumenica e vuole tendere ponti di convivenza e dialogo con ebrei e musulmani.

Il Centro sarò animato dalla Comunità Chemin Neuf, nata in Francia nel 1973, che riunisce 1.500 persone in 25 Paesi.


Il Centro Internazionale Maria di Nazareth può essere visitato all'indirizzo: www.mariedenazareth.com



[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Testimonianze


La lotta e la danza della vita da emigranti

di padre Renato Zilio*

ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Maria mi avverte delicatamente:“Padre, la prossima domenica non verrò alla messa!”. È un po’ mortificata nel dirmelo, ma capisco subito, andrà alla chiesa del suo quartiere, alla sua età non è poi così facile muoversi...D’altronde, mi dico, è bello anche questo: sentirsi a casa qui alla Missione italiana o andare senza paura a messa insieme... agli stranieri, in un’altra lingua, con un altro stile. Siamo all’estero, è vero.

Da giovane, tutte le domeniche, era qui alla Missione cattolica italiana tra una marea di altri italiani. Ritrovarsi insieme è ritrovare se stesso. Cioè sentirsi se stessi fino in fondo, recuperare la propria identità, respirare il medesimo clima, cogliere le cose al volo... Dopo una settimana che si sta in un Paese dove tutto è straniero come la lingua, il ritmo, le abitudini e i volti, sentirsi tra i suoi alla domenica è qualcosa di magico. Eppoi, la fede è stata già da piccoli legata alla comunità, alla festa insieme, ai santi, alla parola reciproca di conforto o di compagnia... e qui alla Missione italiana è proprio questo che si respira.

In una comunità di emigranti è una dinamica abituale: sistole e diastole, duplice movimento del cuore, è il ritrovarsi per poi disperdersi, il perdersi tra gli altri per incontrarsi di nuovo. La stessa dinamica, in fondo, che vive ogni grande religione settimanalmente il venerdi, il sabato o la domenica con i propri credenti: lo si nota, qui all’estero, con i vicini di casa che sono musulmani, ebrei o protestanti. Incontrarsi per celebrare la vita, disperdersi per viverne la fede. Stupenda ambivalenza.

È sempre la stessa fede di Abramo che rivive in questa nostra gente. E non solo per quella fiducia cieca che li ha fatti partire e atterrare in un altro mondo o in un altro emisfero... Mi sembra ancora di rivedere la tristezza infinita di siciliani o di pugliesi nell’arrivare smarriti in un paesaggio innevato e freddo della Svizzera: “Ma chi mai sapeva cos’era la neve?!”. O in villaggi neri di foschia e di fuliggine attorno alle miniere del Belgio: “Dover lavare ogni settimana i muri esterni della casa sporchi di smog, si dicevano tra loro, ma chi se lo era mai sognato di fare?!”. E così lasciare alle spalle per sempre il loro sole, i bei panorami che si godevano nelle terre del Sud e che erano, anche se non sembra, una parte della loro vita... Eppoi i ritmi di lavoro, come quello a cottimo, tanto più lavori e tanto più ti pagano. Per una manciata di soldi in più un lavoro che ti illude e ti consuma fin dentro all’anima: impari a diventare una macchina che sa solo lavorare e niente più!

Ormai è la fede della provvisorietà e dell’itineranza che li insegue continuamente e ovunque. Tutto rimane fragile, provvisorio, quotidiano, a cominciare dalla realtà che ti sembrava più sicura: i figli. Ogni giorno che crescono si allontanano un passo di più da mamma e papà, dalla nostra stessa cultura: parlano un’altra lingua, hanno altri gusti, vivono altri sogni...“Si annoiano perfino del nostro tesoro: quel pezzo di casa rimasto in Italia che serve nei pochi giorni di ferie all’anno!”. Ritornare sempre al solito posto ormai non li incanta più...“Ma non sono questi i nostri figli?!”. Ci si chiede a volte con amarezza, guardandoli crescere. Legge amara e paradossale: il migrante sarà accolto in un Paese nella misura in cui i figli diventeranno in casa propria degli stranieri!

Ed è quella fede che ritrovi nella preghiera di Angela, domenica scorsa: “Ti ringrazio, Signore, perchè questo tumore che mi è arrivato mi ha fatto capire che la vita non è mia. Veramente, è un dono che mi fai ogni mattina e non so fino a quando...”. Solamente in una vita di emigrazione può nascere una preghiera simile che, ascoltandola, fa stringere il cuore. Preghiera della provvisorietà. Dove ancora vive lo spirito di Abramo e quella fiducia ad occhi chiusi nella notte di una prova. Cammino oscuro da fare soli insieme a Dio: non si vive unicamente di certezze, ma anche di fede, di fiducia. E, in fondo, è questa che fa rinascere il mondo...

Se provi poi a chiedere a qualche nostro emigrato qui che cos’è la fede... non ti risponderà, non saprebbe neanche farlo. Dagli occhi, però, dal modo di guardarti capirai subito che per lui è un motore. È quella forza, insomma, che Dio stesso ha trasmesso a lui, ai suoi e alla sua originale avventura. Non è tanto per lui una visione, una credenza, un’idea ragionata o un sentimento improvviso... È qualcosa che gli ha fatto superare tutti gli ostacoli che, in una vita di migranti, sono stati così tanti da sembrare infiniti.

Ogni volta alla celebrazione dei 25, 40 o 50 anni di matrimonio di emigranti guardo salire all’altare una coppia spesso incerta e barcollante. Prendo loro le mani, le tengo ben strette insieme e invitandoli a chiudere gli occhi - come ha fatto la loro fede - invoco lo sguardo di Dio su questa storia coraggiosa e fiduciosa costruita insieme. “Siamo stati bravi, Padre, tanti anni insieme...”. Mi soffiano a bassa voce con emozione mista ad una punta di orgoglio, sufficiente affinchè i figli possano sentire e forse imparare... Sì, sono stati bravi! Difficoltà e sofferenze affrontate insieme, umiliazioni e illusioni provate, una speranza grande vissuta dentro, tutto li ha solidificati: sono vittoriosi insieme. Lo si vede ora dal loro sguardo luminoso, anche se il corpo ormai è malandato.

Sentono che la loro vita di emigranti si può riassumere in due sole parole: una lotta e una danza, allo stesso tempo. Qualcosa di duro, di amaro e di inimmaginabile che non potranno mai più dimenticare. Ma anche qualcosa di bello che ha aperto l’orizzonte e il cuore, li ha fatti rinascere in un altro mondo che ora sentono come proprio. Nel loro piccolo - ma essi non lo sanno - la loro fede ha trasformato il mondo. Ogni emigrante fa incontrare e riconciliare, senza saperlo, mondi differenti, visioni della vita ben diverse. Attraverso di lui, valori e culture lanciano dei ponti nel mare aperto dell’umanità. Anche Dio, un giorno, ha fatto lo stesso tra il cielo e la terra: divenne come uno di noi, migrante... E fu Natale.

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*Padre Renato Zilio è missionario scalabriniano con studi letterari presso l'Università di Padova, studi teologici a Parigi e maìtrise in teologia delle religioni. Dopo l'esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d'Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road.

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Italia


La storia conferma la nascita di Gesù il 25 dicembre

di Michele Loconsole*

ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Molti si interrogano se Gesù sia nato veramente il 25 dicembre. Ma cosa sappiamo in realtà sulla storicità della sua data di nascita? I Vangeli, come è noto, non precisano in che giorno è nato il fondatore del cristianesimo.

E allora, come mai la Chiesa ha fissato proprio al 25 dicembre il suo Natale? È vero, inoltre, che questa festa cristiana - seconda solo alla Pasqua - è stata posta al 25 dicembre per sostituire il culto pagano del dio Sole, celebrato in tutto il Mediterraneo anche prima della nascita di Gesù?

Cominciamo col dire che il solstizio d’inverno – data in cui si festeggiava nelle culture politeiste il Sol Invictus - cade il 21 dicembre e non il 25.

In secondo luogo è bene precisare che la Chiesa primitiva, soprattutto d’Oriente, aveva fissato la data di nascita di Gesù al 25 dicembre già nei primissimi anni successivi alla sua morte.

Dato che è stato ricavato dallo studio della primitiva tradizione di matrice giudeo-cristiana - risultata fedelissima al vaglio degli storici contemporanei - e che ha avuto origine dalla cerchia dei familiari di Gesù, ossia dalla originaria Chiesa di Gerusalemme e di Palestina.

E allora, se la Chiesa ha subito fissato al 25 dicembre la nascita di Gesù, abbiamo oggi prove documentali e archeologiche che possono confermare la veneranda tradizione ecclesiale? La risposta è si.

Nel 1947 un pastorello palestinese trova casualmente una giara, semisepolta in una grotta del deserto di Qumran, un’arida regione a pochi chilometri da Gerusalemme. La località era stata sede della comunità monastica degli esseni, che oltre all’ascetismo praticava la copiatura dei testi sacri appartenuti ai loro antenati israeliti. I monaci del Mar Morto produssero in pochi decenni una grande quantità di testi, poi nascosti in grandi anfore per salvarli dall’occupazione romana del 70 d.C.

All’indomani della fortunata scoperta, archeologi di tutto il mondo avviarono una grande campagna di scavi nell’intera zona desertica, rinvenendo ben 11 grotte, che custodivano, da quasi venti secoli, numerosi vasi e migliaia di manoscritti delle Sacre Scritture israelitiche, arrotolati e ben conservati.

Tra questi importanti documenti, uno ci interessa particolarmente: è il Libro dei Giubilei, un testo del II secolo a.C.

La fonte giudaica ci ha permesso di conoscere, dopo quasi due millenni, le date in cui le classi sacerdotali di Israele officiavano al Tempio di Gerusalemme, ciclicamente da sabato a sabato, quindi sempre nello stesso periodo dell’anno.

Il testo in questione riferisce poi che la classe di Abia, l’VIII delle ventiquattro che ruotavano all’officiatura del Tempio - classe sacerdotale cui apparteneva il sacerdote Zaccaria, il padre di Giovanni Battista - entrava nel Tempio nella settimana compresa tra il 23 e il 30 settembre.

La notizia apparentemente secondaria si è rivelata invece una vera bomba per gli studiosi del cristianesimo antico. Infatti, se Zaccaria è entrato nel Tempio il 23 settembre, giorno in cui secondo il vangelo di Luca ha ricevuto l’annuncio dell’Arcangelo Gabriele, che gli ha comunicato - nonostante la sua vecchia età e la sterilità della moglie Elisabetta - che avrebbe avuto un figlio, il cui nome sarebbe stato Giovanni, questo vuol dire che il Precursore del Signore potrebbe essere nato intorno al 24 giugno, nove mesi circa dopo l’Annuncio dell’angelo.

Guarda caso gli stessi giorni in cui la Chiesa commemora nel calendario liturgico, già dal I secolo, sia il giorno dell’Annunciazione a Zaccaria che la nascita di Giovanni.

Detto ciò, Maria potrebbe avere avuto la visita, sempre di Gabriele, giorno dell’Annunciazione, proprio il 25 marzo. Infatti, quando Maria si reca da sua cugina Elisabetta, subito dopo le parole dell’Arcangelo, per comunicare la notizia del concepimento di Gesù, l’evangelista annota: “Elisabetta era al sesto mese di gravidanza”.

Passo evangelico che mette in evidenza la differenza di sei mesi tra Giovanni e Gesù. E allora, se Gesù è stato concepito il 25 marzo, la sua nascita può essere ragionevolmente commemorata il 25 dicembre, giorno più, giorno meno.

Se così stanno i fatti - e la fonte qumranica li documenta - possiamo affermare senza tema di smentita che grazie alla scoperta della prezioso testo, avvenuto appena sessant’anni fa, la plurimillenatria tradizione ecclesiastica è confermata: le ricorrenze liturgiche dei concepimenti e dei giorni di nascita, sia di Giovanni che soprattutto di Gesù, si sono rivelati pertanto compatibili con la scoperta archeologica del Deserto di Giuda.

Cosa sarebbe accaduto se, per esempio, avessimo scoperto che il sacerdote Zaccaria fosse entrato nel Tempio nel mese di marzo o di luglio? Tutte le date liturgiche che ricordano i principali avvenimenti dei due personaggi evangelici sopra citati sarebbero diverse da quelle indicate dalla tradizione ecclesiale. E subito gli scettici, strappandosi le vesti, avrebbero gridato al mondo intero che la Chiesa si è inventata tutto, compreso la data di nascita del suo fondatore.

Ma l’indagine non è ancora terminata! Alcuni detrattori della storicità della data del Natale al 25 dicembre hanno, infatti, osservato che in quel mese - cioè in pieno inverno - gli angeli non potevano incontrare in aperta campagna e di notte greggi e pastori a cui dare la lieta notizia della nascita del Salvatore dell’umanità.

Eppure, quanti sostengono questa ipotesi dovrebbe sapere che nell’ebraismo tutto è soggetto alle norme di purità. Secondo non pochi antichi trattati ebraici, i giudei distinguono tre tipi di greggi.

Il primo, composto da sole pecore dalla lana bianca: considerate pure, possono rientrare, dopo i pascoli, nell’ovile del centro abitato. Un secondo gruppo è, invece, formato da pecore la cui lana è in parte bianca, in parte nera: questi ovini possono entrare a sera nell’ovile, ma il luogo del ricovero deve essere obbligatoriamente al di fuori del centro abitato.

Un terzo gruppo, infine, è formato da pecore la cui lana è nera: questi animali, ritenuti impuri, non possono entrare né in città né nell’ovile, neppure dopo il tramonto, quindi costretti a permanere all’aperto con i loro pastori sempre, giorno e notte, inverno e estate.

Non dimentichiamo, poi, che il testo evangelico riferisce che i pastori facevano turni di guardia: fatto che appare comprensibile solo se la notte è lunga e fredda, proprio come quelle d’inverno. Ricordo che Betlemme è ubicata a 800 metri sul livello del mare.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo ritenere risolto il mistero: i pastori e le greggi incontrati dagli angeli in quella santa notte a Betlemme appartengono al terzo gruppo, formato da sole pecore nere. Prefigurazione, se vogliamo, di quella parte della società, composta da emarginati, esclusi, derelitti e peccatori che tanto piacerà avvicinare al Gesù predicatore.

In conclusione, possiamo dunque affermare non solo che Gesù è nato proprio il 25 dicembre ma che i vangeli dicono la verità storica circa i fatti accaduti nella notte più santa di tutti i tempi: coloriamo di nero le bianche pecorelle dei nostri presepi e saremo più fedeli non solo alla storia quanto al cuore dell’insegnamento del Nazareno.



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* Il prof. Michele Loconsole è dottore in Sacra Teologia ecumenica, Presidente dell’associazione internazionale ENEC (L’EUROPE – NEAR EAST CENTRE) e Vicepresidente della Fondazione Nikolaos e dell’Associazione Puglia d'Oriente. Ha pubblicato recentemente il volume “Il simbolo della croce. Storia e liturgia” (Bari 2009).


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Segnalazioni


Torna a Roma il Presepe vivente missionario
Organizzato dalla Comunità Missionaria di Villaregia

ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Un lungo salto indietro nel tempo, oltre 2000 anni fa, è quello che si materializzerà il 27 dicembre 2009 e il 2 gennaio 2010 negli spazi della sede romana della Comunità Missionaria di Villaregia (Via Antono Berlese 55, al 18° km della Laurentina).

Sotto un cielo stellato, in mezzo alle colline della campagna romana, attorno a un grande fuoco al centro del piazzale, sorgeranno le capanne in legno che riproducono la vita a Betlemme nell’anno zero. Al centro, la capanna con il neonato Gesù Bambino, con accanto Giuseppe e Maria e dietro di loro un vero bue e un vero asino. Tutto in carne e ossa, come il fabbro e il falegname dentro la loro bottega, il mugnaio che impasta il pane, i pastori, il mercato ebreo, il calzolaio, le pecore, le mucche, le oche e le galline, fino ai cammelli dei Re Magi.

Dopo la grande partecipazione degli scorsi anni, torna a Roma per la sua terza edizione il Presepe vivente missionario della Comunità Missionaria di Villaregia. Con nuovi obiettivi e nuove sorprese. Sempre l’Africa al centro del cuore dei missionari di Villaregia, che quest’anno destinano le offerte che arriveranno dai partecipanti a un progetto in Costa D’Avorio, per il sostegno dei centri sanitari a Yopougon, dove la Comunità ha una missione da oltre dieci anni.

In questa zona la mortalità infantile è del 19,4 % tra i bambini che hanno meno di 5 anni e dell'11,8% tra i bambini che hanno meno di un anno. Lo stipendio minimo di un lavoratore è di 50.000 F cfa (76 €), mentre la speranza di vita è di 48 anni.

In questo buio il presepe vuole accendere una luce di speranza. La visita al presepe inizierà alle 16.00 e terminerà alle 18.00 con la celebrazione della messa per chi lo desidera.

Un musical dal vivo verrà rappresentato durante il pomeriggio. Una donna canta la disperazione della povertà materiale e spirituale dell’Uomo urlando il suo perché al cielo. La risposta arriva da Giovanni Battista che annuncia al mondo la nascita della Speranza, del Figlio di Dio, in un crescendo emozionale di musica e voci che si intrecciano fino all’arrivo nella capanna di Gesù, il Salvatore.

Attorno allo scenario di Betlemme anno zero un’altra novità di questa edizione del Presepe sarà la mostra di diversi presepi di tutte le dimensioni costruiti artigianalmente e nelle tecniche più disparate.

Ci saranno quelli in materiale riciclato ed ecosostenibile, quelli realizzati in cartapesta, quelli etnici provenienti dalle terre dal Brasile, dal Perù, dal Messico, dal Portorico, dal Mozambico e dalla Costa D’Avorio e quello costruito col legno degli ulivi di Gerusalemme.

Ed ancora quelli artistici, i più grandi, di dimensioni due metri per un metro, con oltre 30 personaggi che indossano abiti cuciti a mano, e quelli più piccoli, come quello costruito in una castagna, o in una noce, o ancora in una conchiglia.

Grandi attrazioni per i più piccoli che verranno travestiti da pastorelli, potranno fare giri in groppa di piccoli pony, e potranno gustare la cioccolata calda, i dolci e i biscotti fatti in casa da decine di volontarie della Comunità Missionaria di Villaregia.


Per ulteriori informazioni:

www.cmv.it

www.presepevivente.eu

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Interviste


Così San Francesco inventò il presepe
di Renzo Allegri

ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Il simbolo più popolare del Natale è il presepe, cioè quella rappresentazione visiva di quanto si legge nel Vangelo di San Luca al capitolo secondo: la nascita di Gesù che “viene adagiato in una mangiatoia perché non vi era posto per loro nell’albergo”, ma gli angeli trasformano la notte in una festa meravigliosa, invitando i pastori a rendere omaggio a quel bambino.

In questi giorni, il presepe è presente in milioni e milioni di famiglie in tutto il mondo, non solo cattoliche.  Si tratta di una tradizione che affonda le sue radici in uno specifico fatto storico della vita di San Francesco. Fu lui, il poverello d’Assisi, a dar vita per la prima volta a un presepe, e lo fece a Greccio, in Umbria, il 25 dicembre 1223.

Ne abbiamo parlato con un frate francescano, che si chiama Padre Francesco Rossi e che per vent’anni è vissuto a Greccio, addetto ad accompagnare i pellegrini sul luogo dove avvenne il primo presepe e spiegare loro la storia e quali significati profondi volle dare ad essa il Santo di Assisi.

"Nel 1220", ci ha detto Padre Rossi "Francesco era riuscito a realizzare un grande desiderio, andare a visitare i luoghi della vita terrena di Gesù. Fu anche a Betlemme e si fermò a lungo a pregare e meditare sul luogo dove il Salvatore nacque.  Tornato in Italia, continuava a ripensare a quel viaggio. E la sua mente era affascinata soprattutto dall’evento della nascita di Gesù.  Dio che si fa uomo.   Dio che diventa bambino, umile, fragile, indigente. Francesco si commuoveva fino a piangere facendo queste considerazioni. E nel Natale del 1223, decise di organizzare una 'rappresentazione viva' della nascita di Gesù,  convinto che, potendo 'vedere' con i suoi occhi,  avrebbe avuto modo di comprendere ancora più a fondo.

Perché scelse Greccio per quella rappresentazione e non Assisi, sua città natale, dove abitualmente viveva?

Padre Francesco Rossi: Probabilmente perché Greccio gli richiamava alla mente il paesaggio di Betlemme, che aveva visitato tre anni prima. Conosceva Greccio. La sua prima visita a quei luoghi risale al 1208. Allora si era stabilito, con alcuni suoi compagni, sulla montagna. Ma in seguito, gli abitanti che stavano giù a valle lo pregarono di andare a vivere vicino a loro. E Francesco scese dalla montagna e si stabilì in alcune grotte nei pressi del borgo. Greccio era un piccolo agglomerato di povere abitazioni intorno al castello. Forse contava un centinaio circa di abitanti. La zona era paludosa, malsana, e anche per questo poco abitata. Ma aveva quell’aspetto di povertà assoluta, di silenzio, di sofferenza anche fisica della natura, che a Francesco piacevano, perché lo aiutavano a meditare, a sentirsi umile, povero. Tornando dai suoi viaggi in giro per l’Italia, amava sostare a Greccio. E quando pensò di “rivivere” la nascita di Gesù, volle che questo avvenisse a Greccio.

Ci sono documenti storici di quell’evento?

Padre Francesco Rossi: I primi biografi, contemporanei a Francesco, quindi testimoni diretti, in particolare  Tommaso da Celano e San Bonaventura, ne fanno un resoconto dettagliato.

 Tommaso da Celano, nella sua “Vita prima di San Francesco d’Assisi”,  al capitolo XXX, dedicato appunto al racconto del Presepio di Greccio,  dice che il Santo pensava continuamente alla vita di Gesù e soprattutto “all'umiltà dell'Incarnazione e alla carità della Passione”. Cioè, ai due aspetti più umani e anche più sconvolgenti della vita terrena del Cristo.

Francesco ha fama, tra la gente, di essere un santo  romantico, un poeta, l’autore del “Cantico delle creature”, l’amante degli animali, della natura, insomma un santo in un certo senso un po’ astratto, immerso in una realtà mistica lontana dalla concretezza della vita.  Immagine completamente sbagliata.

San Francesco era sì un tipo romantico, un vero poeta e un autentico mistico, ma con una “concretezza” granitica.  La sua imitazione del Cristo era “alla lettera”, senza sbavature.  Gesù ha insegnato che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre e che egli si nasconde nei più miseri, negli ammalati, nei carcerati. E Francesco, per “vivere” alla lettera questo insegnamento, andava a visitare i carcerati, abbracciava e serviva i lebbrosi. Gesù era povero, non aveva niente, e Francesco, che apparteneva a una famiglia ricca, volle rinunciare a tutto, perfino ai vestiti che indossava.  L’Incarnazione, la nascita e la morte di Gesù erano, come scrisse il Celano, argomenti fissi delle meditazioni di  Francesco voleva assimilarne il significato più profondo, immedesimandosi in essi fino a “viverli”. E per riuscire in questo, si ritirava sui monti, in luoghi deserti, in modo che la sua meditazione fosse profonda. Nel 1223 era tutto concentrato sulla nascita di Gesù e volle celebrare il Natale di quell’anno con una “rappresentazione realistica” di quell’evento. L’anno successivo, 1224, andrà sul monte Verna per meditare sulla passione e morte di Gesù e avrà l’impressione delle stigmate di Cristo sul proprio corpo.

Come si svolse quella “rappresentazione” del Natale?

Padre Francesco Rossi: Francesco la preparò con meticolosità. Chiese aiuto a un amico, un certo Giovanni da Greccio, signore della zona, che il santo stimava molto perché, come scrive il Celano,  “pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne”. All’amico disse di voler organizzare, per la notte di Natale, una “rappresentazione” della nascita di Gesù. Non, però, uno “spettacolo” da far vedere ai curiosi. Ma una “ricostruzione visiva e vera”.  Tommaso da Celano riporta le parole esatte che Francesco disse a Giovanni: “Vorrei rappresentare il bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia, e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Francesco aborriva lo spettacolo. Lo riteneva irrispettoso nei confronti del grande mistero religioso. E temeva che la sua iniziativa venisse male interpretata. Per questo, come informa San Bonaventura, (anche lui contemporaneo di Francesco e quindi testimone diretto), prima di mettere in atto quel suo progetto chiese il permesso al Papa.

Cosa accadde nel corso di quella notte?

Padre Francesco Rossi: Giovanni di Greccio organizzò ogni cosa come Francesco aveva chiesto.  La notizia era stata diffusa e la gente del luogo si radunò presso la grotta dove Francesco e i frati andavano a pregare. Arrivarono pellegrini anche da altri borghi. Scrisse il Celano: “Arrivarono uomini, donne festanti, portando ciascuno, secondo le sue possibilità,  ceri e fiaccole per illuminare quella notte”.

 Alla fine arrivò anche Francesco e,  vedendo che  tutto era predisposto secondo il suo  desiderio, era raggiante di letizia. Il Celano precisa che, a quel punto, “si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello”. Da questa annotazione si comprende chiaramente che Francesco vuole ricostruire la scena della nascita di Gesù, ma non vuole dare spettacolo. Infatti, nessuno dei presenti prende il posto della Madonna, di San Giuseppe, del bambino.  Se così si fosse fatto, sarebbe stato spettacolo. No, Francesco vuole vedere la scena reale su cui pensare e riflettere nel corso della Messa che sarebbe stata celebrata, perché la Messa avrebbe richiamato la presenza reale di Gesù in quel luogo.

 E’ questo un dettaglio importantissimo. La liturgia eucaristica richiama sull’altare la presenza “vera, reale e sostanziale” di Gesù.  Francesco voleva rivivere la nascita di Gesù in forma reale nel contesto della Messa. Quando parlava dei sacerdoti, li paragonava alla Vergine Maria, perché nella Messa i sacerdoti fanno rinascere sull’altare Gesù. E diceva anche che i fedeli,  quando fanno la Comunione, sono come Maria che ha portato Gesù dentro di sé. Quindi, la Liturgia eucaristica di quella notte di Natale avrebbe portato Gesù in quel luogo allestito come la capanna di Betlemme.

Francesco era diacono: partecipò alla Messa?

Padre Francesco Rossi: Certamente. Indossò i paramenti solenni e  lesse il Vangelo, tenendo poi una predica. Il Celano dice che quando pronunciava le parole “Bambino di Betlemme” la sua voce tremava di tenerezza e di commozione. Il Celano aggiunge che, nel corso della celebrazione eucaristica, si manifestarono “in abbondanza i doni dell’Onnipotente”, cioè fatti prodigiosi. E riporta la testimonianza, che viene riferita anche da San Bonaventura, di ciò che vide Giovanni da Greccio.  “Egli affermò”, scrisse San Bonaventura “di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullo addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno”. E una chiara indicazione di ciò che potrebbe essere accaduto e che la tradizione ha sempre tramandato: Gesù si fece realmente vivo “apparendo” nelle sembianze di un bambino sul fieno di quella mangiatoia.


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I cambiamenti nella liturgia pontificia introdotti da Benedetto XVI
Intervista a don Mauro Gagliardi, Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- I fedeli di tutto il mondo hanno potuto constatare in diretta televisiva i cambiamenti avvenuti nella liturgia pontificia sotto Benedetto XVI.

Ne abbiamo parlato con don Mauro Gagliardi, Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, nonché curatore della rubrica di teologia liturgica “Spirito della liturgia”, pubblicata su ZENIT a cadenza quindicinale. 
 
Leggendo l’articolo di Luigi Accattoli, Il rito del silenzio secondo papa Ratzinger (Liberal, 1° dicembre 2009, p. 10) emerge l’idea di un certo lavorio, sollecitato dallo stesso Santo Padre, per rendere la liturgia papale più in linea con la tradizione. Siccome ci avviciniamo alle solenni celebrazioni delle feste natalizie, che saranno presiedute in San Pietro da Benedetto XVI, vorremmo cogliere l’occasione per parlare con lei di questi cambiamenti. 

Gagliardi: L’articolo di Accattoli presenta un’efficace panoramica di alcune delle più visibili tra le recenti decisioni in materia di liturgia pontificia, anche se ve ne sono altre, probabilmente non menzionate per brevità o perché di più difficile comprensione da parte del grande pubblico. Il noto e stimato vaticanista sottolinea a più riprese che questi cambiamenti sono quasi ispirati dallo stesso Santo Padre il quale, come tutti sanno, è esperto di liturgia. 

Accattoli comincia la sua ricostruzione menzionando le vesti papali che erano state dismesse negli ultimi decenni: il camauro, il saturno rosso, la mozzetta con pelliccia di ermellino. Inoltre menziona i cambiamenti avvenuti per quanto riguarda il pallio. 

Gagliardi: Si tratta di elementi delle vesti proprie del Pontefice, come pure il colore rosso delle calzature, non ricordato esplicitamente dall’articolista. Se è vero che negli ultimi decenni i Sommi Pontefici hanno scelto di non utilizzare queste vesti, o di modificarne la foggia, è anche vero che esse non sono mai state abolite e quindi ogni Papa può utilizzarle. Non va dimenticato che, al pari della maggioranza degli elementi visibili della liturgia, anche le vesti di uso extraliturgico rispondono sia a necessità pratiche che simboliche. Ricordo che quando Papa Benedetto utilizzò per la prima volta il camauro – un copricapo invernale che protegge bene dal freddo – un noto settimanale italiano pubblicò il volto sorridente del Santo Padre, che indossava appunto il camauro, e sotto la foto aggiunse una didascalia che diceva: «Ha fatto bene!», riferendosi al fatto che anche il Papa ha ben diritto di ripararsi dal freddo. Ma non ci sono solo ragioni pratiche. Non dobbiamo dimenticare chi è e che ruolo svolge la persona che usa queste vesti: perciò esse hanno anche un valore simbolico, che si esprime con la loro bellezza ed il loro particolare decoro.

Diverso è il caso del pallio, che è invece un indumento liturgico. Giovanni Paolo II ne utilizzava uno uguale a quello che indossano i metropoliti. All’inizio del pontificato di Benedetto XVI, ne era stato preparato uno di foggia diversa, che riprendeva usi antichi e che il Santo Padre ha usato per qualche tempo. In seguito a studi attenti, ci si è resi conto che era preferibile tornare alla forma usata da Giovanni Paolo II, anche se sono state apportate piccole modifiche in modo che risalti chiaramente la differenza tra il pallio dei metropoliti – imposto ad essi dal Papa – e il pallio del Sommo Pontefice. Maggiori informazioni su questo si possono trovare nell’intervista a mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, pubblicata sull’Osservatore Romano del 26 giugno 2008. 
 
Che cosa può dirci della ferula scelta da Benedetto XVI al posto del crocifisso dello scultore Scorzelli, utilizzato da Paolo VI e dai due Giovanni Paolo, fino alla prima parte di pontificato dello stesso Papa Benedetto? 

Gagliardi: Si potrebbe dire che anche qui vale lo stesso principio. Si può menzionare una ragione pratica: l’attuale pastorale di Benedetto XVI, che egli utilizza dall’inizio del presente anno liturgico, pesa ben 590 grammi in meno rispetto al crocifisso di Scorzelli, quindi più di mezzo chilo di differenza, che non è poco. A livello storico, poi, il pastorale a forma di croce risponde in modo più fedele alla forma del pastorale tipico della tradizione romana, ossia utilizzato dai sommi pontefici, che è sempre stato a forma di croce e senza crocifisso. D’altro canto, anche qui si potrebbero aggiungere altre riflessioni dal punto di vista simbolico ed estetico. 
 
Accattoli cita anche altri cambiamenti, che potremmo definire più di sostanza: la cura per i momenti di silenzio, la celebrazione verso il crocifisso e con le spalle all’assemblea e la comunione distribuita ai fedeli in ginocchio e sulla lingua. 

Gagliardi: Si tratta di elementi di grande significato, che ovviamente non posso qui analizzare in modo dettagliato, ma solo per brevi cenni. L’Institutio Generalis del Messale Romano pubblicato da Paolo VI prescrive in diversi luoghi di osservare il sacro silenzio. L’attenzione nella liturgia papale a questo aspetto non fa altro, quindi, che mettere in pratica le norme stabilite.

Per quanto riguarda la celebrazione verso il crocifisso, vediamo che di norma il Santo Padre sta mantenendo la posizione all’altare cosiddetta «verso il popolo», sia in San Pietro che altrove. Ha celebrato solo poche volte verso il crocifisso: in particolare, nella Cappella Sistina e nella Cappella Paolina, di recente restaurata. Siccome ogni celebrazione della Messa, qualunque sia la posizione fisica del celebrante, è celebrazione rivolta al Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo e mai rivolta «al popolo» o all’assemblea, se non nei pochi momenti dialogati, non è affatto strano che chi celebra l’Eucaristia possa disporsi anche fisicamente «verso il Signore». Particolarmente in luoghi come la Cappella Sistina, dove l’altare è addossato alla parete, è cosa naturale e fedele alle norme celebrare sull’altare fisso e dedicato, rivolti quindi verso il crocifisso, piuttosto che aggiungere un altare mobile per l’occasione.

Per quanto riguarda, infine, il modo di distribuire la Santa Comunione ai fedeli, bisogna distinguere l’aspetto del riceverla in ginocchio da quello del riceverla sulla lingua. Nell’attuale forma ordinaria del rito romano (o Messa di Paolo VI), i fedeli hanno il diritto di ricevere la Comunione stando in piedi o in ginocchio. Se il Santo Padre ha stabilito di comunicarli in ginocchio, penso – ovviamente questa è solo una mia opinione personale – che egli ritenga questo atteggiamento più adatto ad esprimere il senso di adorazione che dobbiamo sempre coltivare davanti al dono dell’Eucaristia. È un aiuto che il Papa dà a coloro che ricevono la Comunione da lui, aiuto a considerare con attenzione chi è Colui che si va a ricevere nella santissima Eucaristia. D’altro canto, nella Sacramentum Caritatis, citando sant’Agostino il Santo Padre aveva ricordato che nel ricevere il Pane eucaristico dobbiamo adorarlo, perché peccheremmo ricevendolo senza adorazione. Prima di comunicarsi, lo stesso sacerdote genuflette davanti all’Ostia: perché non aiutare i fedeli a coltivare il senso di adorazione proprio attraverso simile gesto?

 Per quanto riguarda, invece, il ricevere la Comunione sulla mano, va ricordato che questo è oggi possibile in molti luoghi (possibile, non obbligatorio), ma che ciò è e resta una concessione, una deroga alla norma ordinaria che afferma che la Comunione si riceve solo sulla lingua. Questa concessione è stata fatta alle singole Conferenze Episcopali che l’hanno chiesta e non è la Santa Sede a suggerirla o a promuoverla. E, comunque, nessun vescovo membro della Conferenza Episcopale che ha chiesto e ottenuto l’indulto è obbligato ad applicarlo nella sua diocesi: ogni vescovo può sempre decidere che nella sua diocesi si applichi la norma universale, che vige nonostante tutti gli indulti concessi, norma che stabilisce che i fedeli devono ricevere la Santa Comunione sulla lingua. Se nessun vescovo del mondo è obbligato a fruire dell’indulto, come potrebbe esserlo il Papa? È anzi importante che proprio il Santo Padre mantenga la regola tradizionale, confermata ancora una volta da Paolo VI, che vieta ai fedeli di ricevere la comunione sulla mano (per maggiori dettagli, cf. M. Gagliardi, La liturgia fonte di vita, Fede & Cultura, Verona 2009, pp. 170-181). 
 
In conclusione, lei, che fa parte dello staff di Consultori di mons. Guido Marini, che senso vede nelle novità introdotte nella liturgia papale sotto Benedetto XVI? 

Gagliardi: Naturalmente posso parlare qui solo a titolo personale, non avendo le mie opinioni alcun carattere di posizione ufficiale dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice. A me sembra che ciò che si sta tentando di fare è di coniugare sapientemente cose antiche e cose nuove, di attuare nello spirito e nella lettera, per quanto possibile, le indicazioni del Vaticano II e di fare in modo che le celebrazioni pontificie siano esemplari sotto tutti gli aspetti. Chi assiste alla liturgia papale deve poter dire: «Ecco, così si fa! Così dobbiamo fare anche noi nella nostra diocesi, nella nostra parrocchia!». Vorrei, da ultimo, rilevare che queste “novità”, come lei le definisce, non vengono introdotte semplicemente in modo autoritario. Avrà notato che spesso esse sono spiegate, ad esempio attraverso le interviste che il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie rilascia a L’Osservatore Romano o ad altre testate giornalistiche. Anche noi Consultori di tanto in tanto pubblichiamo degli articoli sul quotidiano della Santa Sede per spiegare il senso storico e teologico delle decisioni che si prendono. Per usare una parola alla moda, direi che c’è un modo “democratico” di procedere, intendendo con questo non che le decisioni siano prese a maggioranza, ma che si cerca di far capire qual è il motivo profondo di questi cambiamenti, che è sempre un motivo storico, teologico e liturgico e mai puramente estetico, tanto meno ideologico. Potremmo dire che ci si sforza di rendere nota la ratio legis e mi pare che anche questo fatto rappresenti una “novità” di una certa importanza. 


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Forum


Lo sviluppo solidale è la chiave del dopo-Copenhagen

di Riccardo Cascioli*

ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Davanti alle sfide poste dai problemi ambientali la strada da seguire è quella dello sviluppo solidale. È l’affermazione cruciale ribadita domenica da Benedetto XVI al termine dell’Angelus, con riferimento al vertice di Copenhagen sul clima che si è aperto ieri. Essa sottolinea con forza la centralità dell’uomo – come soggetto e come fine – in ogni questione sociale, compresa quella dell’ambiente. La Chiesa preferisce parlare di sviluppo solidale, anziché sostenibile, perché quest’ultimo è un concetto che si presta ad alcune ambiguità, mentre l’interesse prioritario e non negoziabile dei cattolici è promuovere la dignità di ogni persona umana, incluse quelle che devono ancora nascere.

La solidarietà, legata al tema dello sviluppo, implica il riconoscimento dell’appartenenza di tutti all’unica famiglia umana e la pari dignità di ogni essere umano. Non si può dunque sacrificare lo sviluppo di alcuni per salvarne altri, né a maggior ragione si può sacrificare alcuni nel nome di priorità «ambientali». Anche perché, oltre che essere immorale, questa visione ha già dimostrato nella storia la sua logica perversa, in quanto generatrice di conflitti.

Il tema della solidarietà fra gli uomini e fra questi e la natura conduce a una seconda parola non casualmente usata dal Papa: il creato. Rispetto al termine ambiente – che può essere interpretato in contrapposizione all’uomo o almeno come "altro" dall’uomo –, creato implica una visione positiva della realtà e dell’uomo, che affonda le radici nell’esistenza di un Creatore da cui tutto dipende.

La terra non è un organismo autonomo che reagisce alle aggressioni come il corpo umano fa con i virus, ovvero con la febbre (non si parla forse spesso di «febbre del pianeta» per descrivere il riscaldamento globale?), ma è dono di Dio all’uomo. L’uomo non solo è parte del Creato, ma è la prima tra le creature. Esiste cioè una gerarchia ontologica tra l’uomo e gli altri esseri viventi. D’altro canto, proprio perché è creatura l’uomo deve rendere conto al Creatore: la superiorità sulle altre creature non è disponibilità assoluta, ma è una responsabilità davanti ai propri simili e a Dio.

La dottrina sociale della Chiesa usa una formula semplice per esprimere questo concetto: la natura è per l’uomo, ma l’uomo è per Dio. L’insistenza del Papa su questi punti non è casuale perché spesso, quando si parla di ambiente, da alcune frange del movimento ecologista viene un rimprovero al cristianesimo che, col suo antropocentrismo, sarebbe addirittura una concausa dei disastri ambientali. Il problema del corretto rapporto con la natura è invece di natura morale, ovvero di come l’uomo gioca la sua libertà nel collaborare alla Creazione (cfr. Laborem Exercens, n.25): se segue il progetto di Dio rende la Creazione più bella e più umana; se invece persegue il proprio progetto, «sfigura» la Creazione.

È proprio per questo che, parlando al clero di Bressanone il 6 agosto 2008, Benedetto XVI sosteneva che il primo nemico dell’ambiente è l’ateismo: «Il consumo brutale della Creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi (…). E lo spreco della Creazione inizia dove (…) non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte».

E ancora, nella Caritas in Veritate spiega che «l’uomo può responsabilmente utilizzare [la natura] per soddisfare i suoi legittimi bisogni –- materiali e immateriali – nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l’uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne».

In questa prospettiva si inserisce anche il richiamo a stili di vita sobri. La sobrietà non consiste nell’usare poco, ma nell’usare secondo le giuste finalità. O, come esortava il Papa domenica, «a rispettare le leggi poste da Dio nella natura».

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*Riccardo Cascioli è scrittore e giornalista del quotidiano “Avvenire”, nonché direttore del Centro Europeo di Studi su Popolazione Ambiente e Sviluppo (Cespas).

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Discorso di fine anno del Papa ai membri della Curia romana

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere in udienza questo lunedì i Cardinali con i membri della Curia Romana e del Governatorato per la presentazione degli auguri natalizi.





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Signori Cardinali,

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,

Cari Fratelli e Sorelle,

la Solennità del Santo Natale, come è stato appena sottolineato dal Cardinale Decano Angelo Sodano, è, per i cristiani, un’occasione del tutto particolare di incontro e di comunione. Quel Bambino che adoriamo a Betlemme ci invita a sentire l’amore immenso di Dio, quel Dio che è disceso dal cielo e si è fatto vicino a ciascuno di noi per renderci suoi figli, parte della sua stessa Famiglia. Anche questo tradizionale appuntamento natalizio del Successore di Pietro con i suoi più stretti collaboratori, è un incontro di famiglia, che rinsalda i vincoli di affetto e di comunione, per formare sempre più quel "Cenacolo permanente" consacrato alla diffusione del Regno di Dio, appena ricordato. Ringrazio il Cardinale Decano per le cordiali parole con cui si è fatto interprete dei sentimenti augurali del Collegio cardinalizio, dei Membri della Curia Romana e del Governatorato, come pure di tutti i Rappresentanti Pontifici che sono profondamente uniti a noi nel portare agli uomini del nostro tempo quella luce che è nata nella mangiatoia di Betlemme. Nell’accogliervi con grande gioia, desidero anche esprimere la mia gratitudine a tutti per il generoso e competente servizio che prestate al Vicario di Cristo e alla Chiesa.

Un altro anno ricco di avvenimenti importanti per la Chiesa e per il mondo volge al termine. Con uno sguardo retrospettivo pieno di gratitudine vorrei in quest’ora richiamare l’attenzione solo su alcuni punti-chiave per la vita ecclesiale. Dall’Anno Paolino si è passati all’Anno Sacerdotale. Dalla figura imponente dell’Apostolo delle Genti che, colpito dalla luce del Cristo risorto e dalla sua chiamata, ha portato il Vangelo ai popoli del mondo, siamo passati alla figura umile del Curato d’Ars, che per tutta la sua vita è rimasto nel piccolo paese che gli era stato affidato e che, tuttavia, proprio nell’umiltà del suo servizio ha reso ampiamente visibile nel mondo la bontà riconciliatrice di Dio. A partire da ambedue le figure si manifesta l’ampia portata del ministero sacerdotale e diventa evidente come è grande proprio ciò che è piccolo e come, attraverso il servizio apparentemente piccolo di un uomo, Dio possa operare cose grandi, purificare e rinnovare il mondo dal di dentro.

Per la Chiesa e per me personalmente, l’anno che si sta chiudendo è stato in gran parte nel segno dell’Africa. C’era innanzitutto il viaggio in Camerun ed Angola. Era commovente per me sperimentare la grande cordialità con cui il Successore di Pietro, il Vicarius Christi, veniva accolto. La gioia festosa e l’affetto cordiale, che mi venivano incontro su tutte le strade, non riguardavano, appunto, semplicemente un qualsiasi ospite casuale. Nell’incontro col Papa si rendeva sperimentabile la Chiesa universale, la comunità che abbraccia il mondo e che viene radunata da Dio mediante Cristo – la comunità che non è fondata su interessi umani, ma che ci è offerta dall’attenzione amorevole di Dio per noi. Tutti insieme siamo famiglia di Dio, fratelli e sorelle in virtù di un unico Padre: questa è stata l’esperienza vissuta. E si sperimentava che l’attenzione amorevole di Dio in Cristo per noi non è una cosa del passato e neppure cosa di teorie erudite, ma una realtà del tutto concreta qui ed ora. Proprio Lui è in mezzo a noi: questo abbiamo percepito attraverso il ministero del Successore di Pietro. Così eravamo elevati al di sopra della semplice quotidianità. Il cielo era aperto, e questo è ciò che fa di un giorno una festa. Ed è al contempo qualcosa di duraturo. Continua ad essere vero, anche nella vita quotidiana, che il cielo non è più chiuso; che Dio è vicino; che in Cristo tutti ci apparteniamo a vicenda.

In modo particolarmente profondo si è impresso nella mia memoria il ricordo delle Celebrazioni liturgiche. Le Celebrazioni della Santa Eucaristia erano vere feste della fede. Vorrei menzionare due elementi che mi sembrano particolarmente importanti. C’era innanzitutto una grande gioia condivisa, che si esprimeva anche mediante il corpo, ma in maniera disciplinata ed orientata dalla presenza del Dio vivente. Con ciò è già indicato il secondo elemento: il senso della sacralità, del mistero presente del Dio vivente plasmava, per così dire, ogni singolo gesto. Il Signore è presente – il Creatore, Colui al quale tutto appartiene, dal quale noi proveniamo e verso il quale siamo in cammino. In modo spontaneo mi venivano in mente le parole di san Cipriano, che nel suo commento al Padre Nostro scrive: "Ricordiamoci di essere sotto lo sguardo di Dio rivolto su di noi. Dobbiamo piacere agli occhi di Dio, sia con l’atteggiamento del nostro corpo che con l’uso della nostra voce" (De dom. or. 4 CSEL III 1 p 269). Sì, questa consapevolezza c’era: noi stiamo al cospetto di Dio. Da questo non deriva paura o inibizione, neppure un’obbedienza esteriore alle rubriche e ancor meno un mettersi in mostra gli uni davanti agli altri o un gridare in modo indisciplinato. C’era piuttosto ciò che i Padri chiamavano "sobria ebrietas": l’essere ricolmi di una gioia che comunque rimane sobria ed ordinata, che unisce le persone a partire dall’interno, conducendole nella lode comunitaria di Dio, una lode che al tempo stesso suscita l’amore del prossimo, la responsabilità vicendevole.

Naturalmente faceva parte del viaggio in Africa soprattutto l’incontro con i Fratelli nel ministero episcopale e l’inaugurazione del Sinodo dell’Africa mediante la consegna dell’Instrumentum laboris. Ciò avvenne nel contesto di un colloquio serale nella festa di san Giuseppe, un colloquio in cui i rappresentanti dei singoli episcopati esposero in maniera toccante le loro speranze e preoccupazioni. Io penso che il buon padrone di casa, san Giuseppe, che personalmente conosce bene che cosa significhi il ponderare, in atteggiamento di sollecitudine e di speranza, le vie future della famiglia, ci abbia ascoltato con amore e ci abbia accompagnato fin dentro il Sinodo stesso. Gettiamo solo un breve sguardo sul Sinodo. In occasione della mia visita in Africa si è resa evidente innanzitutto la forza teologica e pastorale del Primato Pontificio come punto di convergenza per l’unità della Famiglia di Dio. Lì, nel Sinodo, è emersa ancora più fortemente l’importanza della collegialità – dell’unità dei Vescovi, che ricevono il loro ministero proprio per il fatto che entrano nella comunità dei Successori degli Apostoli: ognuno è Vescovo, Successore degli Apostoli, solo in quanto partecipe della comunità di coloro nei quali continua il Collegium Apostolorum nell’unità con Pietro e col suo Successore. Come nelle liturgie in Africa e poi, di nuovo, in San Pietro a Roma, il rinnovamento liturgico del Vaticano II ha preso forma in modo esemplare, così nella comunione del Sinodo si è vissuto in modo molto pratico l’ecclesiologia del Concilio. Commoventi erano anche le testimonianze che potevamo sentire dai fedeli provenienti dall’Africa – testimonianze di sofferenza e di riconciliazione concrete nelle tragedie della storia recente del Continente.

Il Sinodo si era proposto il tema: La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. È questo un tema teologico e soprattutto pastorale di un’attualità scottante, ma poteva essere anche frainteso come un tema politico. Compito dei Vescovi era di trasformare la teologia in pastorale, cioè in un ministero pastorale molto concreto, in cui le grandi visioni della Sacra Scrittura e della Tradizione vengono applicate all’operare dei Vescovi e dei sacerdoti in un tempo e in un luogo determinati. Ma in questo non si doveva cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori trasformarsi in guide politiche. In effetti, la questione molto concreta davanti alla quale i pastori si trovano continuamente è, appunto, questa: come possiamo essere realisti e pratici, senza arrogarci una competenza politica che non ci spetta? Potremmo anche dire: si trattava del problema di una laicità positiva, praticata ed interpretata in modo giusto. È questo anche un tema fondamentale dell’Enciclica, pubblicata nel giorno dei Santi Pietro e Paolo, "Caritas in veritate", che ha in tal modo ripreso ed ulteriormente sviluppato la questione circa la collocazione teologica e concreta della dottrina sociale della Chiesa.

Sono riusciti i Padri Sinodali a trovare la strada piuttosto stretta tra una semplice teoria teologica ed un’immediata azione politica, la strada del "pastore"? Nel mio breve discorso a conclusione del Sinodo ho risposto affermativamente, in modo consapevole ed esplicito, a questa domanda. Naturalmente, nell’elaborazione del documento postsinodale, dovremo fare attenzione a mantenere tale equilibrio ed offrire così quel contributo per la Chiesa e la società in Africa che è stato affidato alla Chiesa in virtù della sua missione. Vorrei cercare di spiegare questo brevemente a proposito di un singolo punto. Come già detto, il tema del Sinodo designa tre grandi parole fondamentali della responsabilità teologica e sociale: riconciliazione – giustizia – pace. Si potrebbe dire che riconciliazione e giustizia siano i due presupposti essenziali della pace e che quindi definiscano in una certa misura anche la sua natura. Limitiamoci alla parola "riconciliazione". Uno sguardo sulle sofferenze e pene della storia recente dell’Africa, ma anche in molte altre parti della terra, mostra che contrasti non risolti e profondamente radicati possono portare, in certe situazioni, ad esplosioni di violenza in cui ogni senso di umanità sembra smarrito. La pace può realizzarsi soltanto se si giunge ad una riconciliazione interiore. Possiamo considerare come esempio positivo di un processo di riconciliazione in via di riuscita la storia dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Il fatto che dal 1945 nell’Europa occidentale e centrale non ci siano più state guerre si fonda sicuramente in misura determinante su strutture politiche ed economiche intelligenti ed eticamente orientate, ma queste potevano svilupparsi solo perché esistevano processi interiori di riconciliazione, che hanno reso possibile una nuova convivenza. Ogni società ha bisogno di riconciliazioni, perché possa esserci la pace. Riconciliazioni sono necessarie per una buona politica, ma non possono essere realizzate unicamente da essa. Sono processi pre-politici e devono scaturire da altre fonti.

Il Sinodo ha cercato di esaminare profondamente il concetto di riconciliazione come compito per la Chiesa di oggi, richiamando l’attenzione sulle sue diverse dimensioni. La chiamata che san Paolo ha rivolto ai Corinzi possiede proprio oggi una nuova attualità. "In nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!" (2 Cor 5, 20). Se l’uomo non è riconciliato con Dio, è in discordia anche con la creazione. Non è riconciliato con se stesso, vorrebbe essere un altro da quel che è ed è pertanto non riconciliato neppure con il prossimo. Fa inoltre parte della riconciliazione la capacità di riconoscere la colpa e di chiedere perdono – a Dio e all’altro. E infine appartiene al processo della riconciliazione la disponibilità alla penitenza, la disponibilità a soffrire fino in fondo per una colpa e a lasciarsi trasformare. E ne fa parte la gratuità, di cui l’Enciclica "Caritas in veritate" parla ripetutamente: la disponibilità ad andare oltre il necessario, a non fare conti, ma ad andare al di là di ciò che richiedono le semplici condizioni giuridiche. Ne fa parte quella generosità di cui Dio stesso ci ha dato l’esempio. Pensiamo alla parola di Gesù: "Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (Mt 5, 23s.). Dio che sapeva che non siamo riconciliati, che vedeva che abbiamo qualcosa contro di Lui, si è alzato e ci è venuto incontro, benché Egli solo fosse dalla parte della ragione. Ci è venuto incontro fino alla Croce, per riconciliarci. Questa è gratuità: la disponibilità a fare il primo passo. Per primi andare incontro all’altro, offrirgli la riconciliazione, assumersi la sofferenza che comporta la rinuncia al proprio aver ragione. Non cedere nella volontà di riconciliazione: di questo Dio ci ha dato l’esempio, ed è questo il modo per diventare simili a Lui, un atteggiamento di cui sempre di nuovo abbiamo bisogno nel mondo. Dobbiamo oggi apprendere nuovamente la capacità di riconoscere la colpa, dobbiamo scuoterci di dosso l’illusione di essere innocenti. Dobbiamo apprendere la capacità di far penitenza, di lasciarci trasformare; di andare incontro all’altro e di farci donare da Dio il coraggio e la forza per un tale rinnovamento. In questo nostro mondo di oggi dobbiamo riscoprire il Sacramento della penitenza e della riconciliazione. Il fatto che esso in gran parte sia scomparso dalle abitudini esistenziali dei cristiani è un sintomo di una perdita di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita, che mette in pericolo la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace. San Bonaventura era dell’opinione che il Sacramento della penitenza fosse un Sacramento dell’umanità in quanto tale, un Sacramento che Dio aveva istituito nella sua essenza già immediatamente dopo il peccato originale con la penitenza imposta ad Adamo, anche se ha potuto ottenere la sua forma completa solo in Cristo, che è personalmente la forza riconciliatrice di Dio e ha preso su di sé la nostra penitenza. In effetti, l’unità di colpa, penitenza e perdono è una delle condizioni fondamentali della vera umanità, condizioni che nel Sacramento ottengono la loro forma completa, ma che, a partire dalle loro radici, fanno parte dell’essere persone umane come tale. Il Sinodo dei Vescovi per l’Africa ha pertanto a ragione incluso nelle sue riflessioni anche rituali di riconciliazione della tradizione africana come luoghi di apprendimento e di preparazione per la grande riconciliazione che Dio dona nel Sacramento della penitenza. Questa riconciliazione, però, richiede l’ampio "atrio" del riconoscimento della colpa e dell’umiltà della penitenza. Riconciliazione è un concetto pre-politico e una realtà pre-politica, che proprio per questo è della massima importanza per il compito della stessa politica. Se non si crea nei cuori la forza della riconciliazione, manca all’impegno politico per la pace il presupposto interiore. Nel Sinodo i Pastori della Chiesa si sono impegnati per quella purificazione interiore dell’uomo che costituisce l’essenziale condizione preliminare per l’edificazione della giustizia e della pace. Ma tale purificazione e maturazione interiore verso una vera umanità non possono esistere senza Dio.

Riconciliazione – con questa parola-chiave mi torna alla mente il secondo grande viaggio dell’anno che si chiude: il pellegrinaggio in Giordania ed in Terra Santa. Al riguardo vorrei innanzitutto ringraziare cordialmente il Re di Giordania per la grande ospitalità con cui mi ha accolto ed accompagnato lungo tutto lo svolgimento del mio pellegrinaggio. La mia gratitudine riguarda in modo particolare anche la maniera esemplare con cui egli si impegna per la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani, per il rispetto nei confronti della religione dell’altro e per la collaborazione nella comune responsabilità davanti a Dio. Ringrazio di cuore anche il governo d’Israele per tutto ciò che ha fatto affinché la visita potesse svolgersi pacificamente ed in sicurezza. Sono particolarmente grato per la possibilità concessami di celebrare due grandi liturgie pubbliche – a Gerusalemme e a Nazaret – in cui i cristiani hanno potuto presentarsi pubblicamente come comunità di fede in Terra Santa. Infine, il mio ringraziamento si rivolge all’Autorità palestinese che mi ha accolto, anch’essa, con grande cordialità; essa pure mi ha reso possibile una Celebrazione liturgica pubblica a Betlemme, e mi ha fatto conoscere le sofferenze come anche le speranze del suo Territorio. Tutto ciò che si può vedere in quei Paesi, invoca riconciliazione, giustizia, pace. La visita a Yad Vashem ha significato un incontro sconvolgente con la crudeltà della colpa umana, con l’odio di un’ideologia accecata che, senza alcuna giustificazione, ha consegnato milioni di persone umane alla morte e che con ciò, in ultima analisi, ha voluto cacciare dal mondo anche Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e il Dio di Gesù Cristo. Così questo è in primo luogo un monumento commemorativo contro l’odio, un richiamo accorato alla purificazione e al perdono, all’amore. Proprio questo monumento alla colpa umana ha reso poi tanto più importante la visita ai luoghi della memoria della fede e ha fatto percepire la loro inalterata attualità. In Giordania abbiamo visto il punto più basso della terra presso il fiume Giordano. Come si potrebbe non sentirsi richiamati alla parola della Lettera agli Efesini, secondo cui Cristo è "disceso nelle regioni più basse della terra" (Eph 4, 9). In Cristo Dio è disceso fin nell’ultima profondità dell’essere umano, fin nella notte dell’odio e dell’accecamento, fin nel buio della lontananza dell’uomo da Dio, per accendere lì la luce del suo amore. Egli è presente perfino nella notte più profonda: anche negli inferi, eccoti – questa parola del Salmo 139 [138], 8 è diventata realtà nella discesa di Gesù. Così l’incontro con i luoghi della salvezza nella chiesa dell’annunciazione a Nazaret, nella grotta della natività a Betlemme, nel luogo della crocifissione sul Calvario, davanti al sepolcro vuoto, testimonianza della risurrezione, è stato come un toccare la storia di Dio con noi. La fede non è un mito. È storia reale, le cui tracce possiamo toccare con mano. Questo realismo della fede ci fa particolarmente bene nei travagli del presente. Dio si è veramente mostrato. In Gesù Cristo Egli si è veramente fatto carne. Come Risorto Egli rimane vero Uomo, apre continuamente la nostra umanità a Dio ed è sempre il garante del fatto che Dio è un Dio vicino. Sì, Dio vive e sta in relazione con noi. In tutta la sua grandezza è tuttavia il Dio vicino, il Dio-con-noi, che continuamente ci chiama: Lasciatevi riconciliare con me e tra voi! Egli sempre pone nella nostra vita personale e comunitaria il compito della riconciliazione.

Infine vorrei ancora dire una parola di gratitudine e di gioia per il mio viaggio nella Repubblica Ceca. Prima di tale viaggio sono sempre stato avvertito che quello è un Paese con una maggioranza di agnostici e di atei, in cui i cristiani costituiscono ormai soltanto una minoranza. Tanto più gioiosa è stata la sorpresa nel costatare che dappertutto ero circondato da grande cordialità ed amicizia; che grandi liturgie venivano celebrate in un’atmosfera gioiosa di fede; che nell’ambito delle università e della cultura la mia parola trovava una viva attenzione; che le Autorità dello Stato mi hanno riservato una grande cortesia e hanno fatto tutto il possibile per contribuire al successo della visita. Sarei ora tentato di dire qualcosa sulla bellezza del Paese e sulle magnifiche testimonianze della cultura cristiana, le quali soltanto rendono tale bellezza perfetta. Ma considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi. A Parigi ho parlato della ricerca di Dio come del motivo fondamentale dal quale è nato il monachesimo occidentale e, con esso, la cultura occidentale. Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr Is 56, 7; Mc 11, 17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli – si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il "Dio ignoto" (cfr At 17, 23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere. Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di "cortile dei gentili" dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto.

Alla fine, ancora una volta, una parola circa l’Anno Sacerdotale. Come sacerdoti siamo a disposizione di tutti: per coloro che conoscono Dio da vicino e per coloro per i quali Egli è lo Sconosciuto. Noi tutti dobbiamo conoscerlo sempre di nuovo e dobbiamo cercarlo continuamente per diventare veri amici di Dio. Come potremmo, in definitiva, arrivare a conoscere Dio, se non attraverso uomini che sono amici di Dio? Il nucleo più profondo del nostro ministero sacerdotale è quello di essere amici di Cristo (cfr Gv 15, 15), amici di Dio, per il cui tramite anche altre persone possano trovare la vicinanza a Dio. Così, insieme con il mio profondo ringraziamento per tutto l’aiuto resomi lungo l’intero anno, ecco il mio augurio per il Natale: che noi diventiamo sempre più amici di Cristo e quindi amici di Dio e che in questo modo possiamo essere sale della terra e luce del mondo. Un santo Natale e un buon Anno Nuovo!

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]

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