mercoledì 23 dicembre 2009

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Servizio quotidiano - 23 dicembre 2009

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Il Papa: il mistero del Natale si apre a un cuore di bambino
In occasione della tradizionale Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Per capire e lasciarsi incantare dal mistero del Natale, di questo Dio incarnatosi per conquistarci con il suo amore, occorre ritrovare un cuore di bambino. E' questo in sitensi quanto ha detto Benedetto XVI durante l'Udienza generale, nell'Aula Paolo VI, dedicata alla prossima festa della Natività.

In un clima gioioso caratterizzato dalle melodie natalizie eseguite da un gruppo di zampognari, il Papa ha ricordato l’antica tradizione del presepe risalente a San Francesco d’Assisi che fu il primo a dar vita a Greccio, in Umbria, il 25 dicembre del 1223 a una rappresentazione viva della nascita di Gesù.

“La notte di Greccio – ha detto il Santo Padre – ha ridonato alla cristianità l’intensità e la bellezza della festa del Natale, e ha educato il Popolo di Dio a coglierne il messaggio più autentico, il particolare calore, e ad amare ed adorare l’umanità di Cristo”.

“Con san Francesco e il suo presepe venivano messi in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua benignità, che nell’Incarnazione del Verbo si manifesta agli uomini per insegnare un nuovo modo di vivere e di amare”, ha ricordato.

Il Papa ha poi spiegato che il 25 dicembre come data della Natività risale al 204 circa e si deve a Ippolito di Roma, mentre la celebrazione del Natale si afferma in una “forma definita” più tardi, nel IV secolo, quando prende il posto della festa pagana del “Sol invictus”, il sole invincibile.

Col Natale “si mise così in evidenza che la nascita di Cristo è la vittoria della vera luce sulle tenebre del male e del peccato”.

Fu però grazie a San Francesco, ha proseguito Benedetto XVI, che “il popolo cristiano ha potuto percepire che a Natale Dio è davvero diventato l’ 'Emmanuele’, il Dio-con-noi, dal quale non ci separa alcuna barriera e alcuna lontananza”.

In quel Bambino, si è manifestata la condizione “povera e disarmante” di Dio-Amore, di un Dio che “viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà”; di un Dio che “si fa Bambino inerme per vincere la superbia, la violenza, la brama di possesso dell’uomo”.

Tuttavia, ha spiegato, per “incontrare Dio e godere della Sua presenza”, occorre diventare come bambini.

“Chi non accoglie Gesù con cuore di bambino, non può entrare nel regno dei cieli: questo è quanto Francesco ha voluto ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutti tempi, fino ad oggi”.

“Preghiamo il Padre perché conceda al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, proprio come fece Francesco a Greccio”, ha quindi concluso.

Infine, nei saluti ai pellegrini di lingua italiana al termine dell'udienza, Benedetto XVI ha espresso un ultimo augurio: “Possa l'amore, che Dio manifesta all'umanità nella nascita di Cristo, accrescere in voi, cari giovani, il desiderio di servire generosamente i fratelli. Sia per voi, cari malati, fonte di conforto e di serenità. Ispiri voi, cari sposi novelli, a consolidare la vostra promessa di amore e di reciproca fedeltà”.

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Le cause di Giovanni Paolo II e Pio XII seguono iter "indipendenti"
Nota di padre Lombardi sul decreto sulle virtù eroiche di Papa Pacelli

ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Le cause di beatificazione di Giovanni Paolo II e di Pio XII sono del tutto “indipendenti”. A sottolinearlo è stato padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana, in una nota riguardante il decreto, firmato il 19 dicembre da Benedetto XVI, che riconosce le virtù eroiche di Papa Eugenio Pacelli.

Nella nota il portavoce vaticano fa riferimento alle numerosi reazioni suscitate nel mondo ebraico da questa decisione e spiega che “quanto al fatto che i decreti sulle virtù eroiche di Papa Giovanni Paolo II e Pio XII siano stati promulgati nello stesso giorno, ciò non significa un 'abbinamento' delle due Cause da ora in poi”.

“Le due Cause sono del tutto indipendenti e seguiranno ciascuna il proprio iter – ha aggiunto . – Non vi è quindi nessun motivo di ipotizzare un’eventuale beatificazione contemporanea”.

A questo punto delle due cause di beatificazione una commissione formata da medici e teologi deve certificare un miracolo avvenuto per intercessione dei due Pontefici dopo la loro morte, che dovrà essere poi approvato dai Vescovi e Cardinali della Congregazione per la Causa dei Santi e dal Papa.

Per quanto riguarda Giovanni Paolo II, in passato il Postulatore della Causa di beatificazione, monsignor Slawomir Oder, aveva indicato il caso di suor Marie Simon-Pierre, della Congregazione delle Piccole Suore delle maternità cattoliche, che il 2 giugno 2005, vicino a Aix-en-Provence, è guarita improvvisamente dal morbo di Parkinson.

Nella nota padre Lombardi spiega che questo atto “conferma la valutazione positiva che la Congregazione per le Cause dei Santi ha già votato - dopo attento esame degli scritti e delle testimonianze – sul fatto che il candidato ha vissuto in modo eminente le virtù cristiane e ha manifestato la sua fede, la sua speranza, la sua carità, in grado superiore a ciò che si attende normalmente dai fedeli”.

“Perciò può essere proposto come modello di vita cristiana al popolo di Dio – ha aggiunto –. Naturalmente si tiene conto in questa valutazione delle circostanze in cui la persona ha vissuto, occorre quindi un esame dal punto di vista storico, ma la valutazione riguarda essenzialmente la testimonianza di vita cristiana data dalla persona (il suo intenso rapporto con Dio e la continua ricerca della perfezione evangelica – come diceva il Papa sabato scorso nel suo discorso alla Congregazione per le Cause dei Santi), e non la valutazione della portata storica di tutte le sue scelte operative”.

“Anche una eventuale successiva beatificazione si colloca nella stessa linea, di proporre al popolo di Dio – con l’ulteriore conforto del segno di grazie straordinarie date da Dio per intercessione del Servo di Dio – un modello di vita cristiana eminente”.

“In occasione della beatificazione di Giovanni XXIII e di Pio IX – ha ricordato –, Giovanni Paolo II affermava: 'La santità vive nella storia e ogni santo non è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio, la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtù a lode della grazia divina che in esse risplende'”.

“Ciò non intende dunque minimamente limitare la discussione circa le scelte concrete compiute da Pio XII nella situazione in cui si trovava – ha sottolineato padre Lombardi –. Per parte sua, la Chiesa afferma che sono state compiute con la pura intenzione di svolgere al meglio il servizio di altissima e drammatica responsabilità del Pontefice”.

“In ogni caso, l’attenzione e la preoccupazione di Pio XII per la sorte degli ebrei – cosa che certamente è rilevante per la valutazione delle sue virtù – sono largamente testimoniate e riconosciute anche da molti ebrei”, ha aggiunto.

“Rimane quindi aperta anche in futuro la ricerca e la valutazione degli storici nel loro campo specifico – ha continuato –. E nel caso concreto si comprende la richiesta di avere aperte tutte le possibilità di ricerca sui documenti”.

Inoltre, ha aggiunto, “già Paolo VI aveva voluto favorire rapidamente tale ricerca” conclusasi con la pubblicazione dei 12 volumi degli “Actes et Documents du Saint Siège” (Libreria Editrice Vaticana), frutto di uno studio dei documenti dell’Archivio segreto vaticano relativi alla Seconda Guerra Mondiale, condotto da padre Pierre Blet, insieme a Angelo Martini, Burkhart Schneider e Robert A. Graham.

In merito all’apertura completa degli Archivi segreti vaticani relativi al pontificato di Pio XII (1939-1958), il portavoce della Santa Sede ha ribadito che “occorre provvedere all’ordinamento e alla catalogazione di una massa enorme di documenti, che richiede un tempo tecnico ancora di alcuni anni”. In una dichiarazione risalente all'ottobre del 2008, il portavoce vaticano aveva detto che questa operazione non sarà possibile prima di 6 0 7 anni.

“Infine – ha continuato padre Lombardi –, le disposizioni di grande amicizia e rispetto del Papa Benedetto XVI verso il popolo ebraico sono state già testimoniate moltissime volte e trovano nel suo stesso lavoro teologico una testimonianza inconfutabile”.

“E’ chiaro quindi che la recente firma del decreto non va in alcun modo letta come un atto ostile contro il popolo ebraico e ci si augura che non sia considerata un ostacolo sul cammino del dialogo fra l’ebraismo e la Chiesa cattolica”.

Per questo, ha concluso, l'augurio è che la prossima visita del Papa alla Sinagoga di Roma, in programma per il 17 gennaio prossimo, sia “occasione per riaffermare e rinsaldare con grande cordialità questi vincoli di amicizia e di stima”.

Nel frattempo, questo mercoledì a Bologna si riunisce l'Assemblea dei rabbini italiani per discutere della vicenda relativa alla beatificazione di Pio XII e della prossima visita di Benedetto XVI. A questo proposito, il direttore generale del gran Rabbinato di Israele, Oded Viner, ha annunciato alla Radio pubblica israeliana che sarà presente anche una delegazione del Gran Rabbinato israeliano nel caso venga approvata dalla comunità ebraica italiana.

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Vaticano II: rivoluzione o sintesi di tradizione e novità?
Presentata l'edizione russa di un volume sul Concilio di mons. Marchetto

MOSCA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Su cosa accadde al Concilio Vaticano II e soprattutto sulle confuse interpretazioni del dopo Concilio, si sta sviluppando un dibattito intenso con articoli, libri, interventi.

Alla domanda se il Vaticano II è stata una rivoluzione o una sintesi di tradizione e novità ha risposto monsignor Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, presentando il 23 novembre a Mosca, al Centro Culturale “Biblioteca dello Spirito” l’edizione russa del suo libro “Il Concilio Vaticano II: contrappunto alla sua storia”, un’analisi critica della storiografia del Concilio Vaticano II, pubblicata dall’editrice Biblioteca dello Spirito.

L’idea centrale dell’autore, argomentata nei diversi capitoli del libro, è il superamento di una visione del Concilio che va per la maggiore, secondo cui esso sarebbe un evento “rivoluzionario” che infrange la continuità della tradizione ecclesiale.

L’autore insiste invece sulla “corretta interpretazione” delle fonti storiche del Vaticano II e dimostra che il Concilio, che ha avuto un’immensa importanza per la Chiesa cattolica nella seconda metà del XX secolo, non rappresenta una rottura con la tradizione, ma “congiunge nuovo e antico, tradizione e apertura alla novità, conservando la continuità della fede e incarnandola come è doveroso nella contemporaneità”.

Il libro di Marchetto è veroso nella contemporaneità» stata una rivoluzione o una sintesi sta aviluppando un dibauno studio attento e critico che fa da contrappunto alla storiografia del Vaticano II come presentata dalla cosiddetta “Scuola di Bologna”, caratterizzata da un’ideologizzazione che, tra l’altro – ha osservato Marchetto – non ha contribuito a rendere autorevole la Chiesa cattolica fra i cristiani di altre confessioni.

“Gli ortodossi che hanno letto i libri della 'Scuola di Bologna' – ha precisato – sono rimasti sconcertati. Ne hanno ricavato un giudizio univocamente negativo sulla Chiesa cattolica, che si presenta ai loro occhi come modernista”.

Monsignor Marchetto ha raccontato di conoscere alcuni ortodossi che ritengono che oggi Papa Benedetto XVI “cerchi affannosamente di riportare il treno della Chiesa sulla strada della tradizione”, ed ha precisato che in realtà il Pontefice non “riporta, bensì conduce la locomotiva della Chiesa su questa strada”.

Questa precisazione è di fondamentale importanza: l’autore del libro riporta un’affermazione di Benedetto XVI tratta dal discorso del 22 dicembre 2005, in cui il Papa respinge l’opinione “che al Concilio Vaticano II sia avvenuta una rottura con tutto ciò che lo precedeva”.

Per l’Arcivescovo Marchetto e i sostenitori delle sue tesi, tra cui vi sono storici italiani e americani, la parola chiave per descrivere il significato del Concilio Vaticano II è un termine entrato in tutte le lingue contemporanee, “aggiornamento”, ed ha aggiunto: “È qui che si rispecchia l’originalità, il senso e lo scopo principale di ogni Concilio, di congiungere nova (il nuovo) e vetera (l’antico), tradizione e apertura alla novità, o, se si vuole, incarnazione della novità”.

Nel corso dell’incontro l’Arcivescovo ha espresso la speranza che il suo libro “contribuisca a riportare uno sguardo positivo sulla storia della Chiesa cattolica e del Concilio Vaticano II”.

Inoltre si è detto convinto che una riflessione teologica sui documenti del Concilio da parte dei pensatori ortodossi possa offrire un contributo alla preparazione del Concilio Panortodosso.

Uno dei compiti del Concilio Vaticano II è stato quello di “guardare con benevolenza al mondo”, ha proseguito monsignor Marchetto, ma questo non significa “conformarsi al mondo”; per questo “l’operato del Concilio può essere considerato un tentativo profetico di soccorrere l’umanità nella sua situazione attuale”.

“Sono convinto – ha affermato – che il Concilio Vaticano II sia stato una grazia, che ci aiuta ad orientarci in situazioni molto difficili del mondo secolarizzato”, osservando che “alla sfida del secolarismo oggi sono chiamati a rispondere i cristiani delle diverse confessioni”.

Rispondendo a una domanda dello storico, professor Anatolij Krasikov, che era presente al Concilio Vaticano II come giornalista, l’Arcivescovo Marchetto ha rilevato che questo Concilio può essere anche inteso come un “tentativo di tornare alla Chiesa delle origini”, di mettere in rilievo l’evidente continuità con la Chiesa del primo millennio.

In merito al rapporto con gli ortodossi monsignor Marchetto ha precisato di ritenere molto vicini il Concilio locale della Chiesa ortodossa russa del 1917-1918 e il grande Concilio Vaticano II, sebbene più di mezzo secolo li separino.

A questo proposito, ha sottolineato che “in realtà, il loro spirito e alcuni temi e proposte coincidono”.

L'autore ha inoltre detto di ritenere molto importante la presenza della Chiesa ortodossa russa al Concilio Vaticano II. Nel testo della postfazione si cita l’Osservatore della Chiesa ortodossa russa al Concilio Vaticano II, padre Vitalij Borovoj.

Di lui monsignor Marchetto ha parlato anche alla presentazione, ricordando come padre Vitalij abbia “dato un giudizio entusiastico del Concilio Vaticano II, dicendo che la Chiesa cattolica ci era passata restando unita”.

Aleksej Judin, docente dell’Università Umanistica Russa, specialista di storia della Chiesa cattolica, ha osservato invece che l’isolamento intellettuale del periodo sovietico ha contribuito al rafforzarsi in Russia di una percezione “mitologica” del Concilio Vaticano II esattamente come rivoluzione, lotta, in cui “i buoni hanno il sopravvento sui cattivi”.

A un convegno ortodosso la scrittrice Elena Čudinova ha detto: “Dall’esempio dell’Occidente vediamo come la Chiesa si sia messa a correre dietro al mondo. A questo l’Occidente è stato condotto dal Concilio Vaticano II, che ha praticamente privato di senso ogni missionarietà, dicendo che tutte le religioni sono egualmente vere”.

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Anno Sacerdotale


Dopo più di 55 anni, ancora innamorato del sacerdozio
Un ex anglicano descrive la gioia di celebrare la Messa

di padre John Jay Hughes

ST. LOUIS, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- “I sacerdoti a cui piace essere sacerdoti sono tra le persone più felici al mondo”. Queste parole di Andrew Greeley, sacerdote e sociologo di Chicago, mi fecero sobbalzare sulla sedia quando le lessi qualche anno fa. “Andy, hai ragione – gli scrissi –. Posso confermarlo per esperienza”.

Figlio e nipote di pastori della Chiesa episcopaliana, sono cresciuto in un mondo in cui il culto pubblico e la preghiera privata formavano parte della vita quotidiana come il mangiare e il dormire. Sin dai nove anni facevo parte del coro della cattedrale di St. John the Divine di New York, allora una sorta di versione americana della cattedrale di Canterbury o di York in Inghilterra. Cantavamo i salmi nei Vespri quotidiani e la domenica gli inni e le parti musicali della liturgia eucaristica. Mi piaceva molto.

A dodici anni, mi resi conto che volevo essere pastore. Quando entrai in collegio, mi chiesero di scrivere un tema su “ciò che avrei voluto fare nei prossimi venti anni”. Scrissi sull’essere missionario in Africa. Questa idea a cui non avevo dedicato in precedenza neanche un pensiero passeggero, mi deve essere venuta dal cappellano della scuola, un pastore dell’Ordine anglicano della Santa Croce, che era stato in missione in Liberia.

Ogni volta che aiutavo a servire la Messa pensavo: “un giorno starò lì. Indosserò quegli abiti. Dirò quelle parole”. L’idea di una vocazione missionaria presto svanì. Ma quella del sacerdozio mai. Ero attratto da quell’obiettivo come un chiodo a una calamita, finché, dopo dodici anni, l’ho raggiunto. Dopo la mia prima Messa, il 4 aprile 1954, ero così contento che ho recitato l’intero “Te Deum” a voce alta nella sacrestia.

Per i primi sei felici anni di ministero parrocchiale, sentivo di aver trovato tutto ciò a cui aspiravo, e anche di più. La mia religione personale era “Cattolicesimo senza il Papa”. I miei studi mi avevano insegnato che le moderne rivendicazioni papali alla giurisdizione universale e all’infallibilità erano illegittime aggiunte alla fede dell’antica Chiesa cattolica. Gli opuscoli cattolici in cui si presenta il Papa come una sorta di oracolo “che ci dà la risposta a ogni domanda” (una caricatura dell’autentica fede cattolica) confermavano il mio rifiuto dell’infallibilità del Papa così definita. Durante quegli anni ho visitato innumerevoli chiese cattoliche sulle due sponde dell’Atlantico. Ho trovato le Messe silenziose e frettolose, in cui il latino (quando si riusciva a sentire) era così farfugliato e ingarbugliato che avrebbe potuto essere cinese: uno spettacolo avvilente rispetto alla solenne liturgia che amavo, con grande partecipazione dei fedeli, con inni pieni di fervore che continuano a mancarmi anche oggi.

Ho sempre considerato l’Anglicanesimo come un castello di carte teologico. Ma era pur sempre il “mio” castello. Era lì dove il Signore mi aveva posto. Non si lascia il luogo che Dio ti ha assegnato, senza motivazioni molto serie. E questo si verificò quando scoprii, durante un lungo viaggio in Europa, nel 1959, che la Chiesa cattolica aveva un volto diverso da quello che avevo conosciuto negli Stati Uniti. Iniziò allora un tormentato periodo di studio e di riflessione, accompagnato da lunghe preghiere quotidiane. Per quasi un anno, le questioni sulla Chiesa e sul mio dovere di coscienza, non lasciavano la mia mente per più di due ore di veglia consecutive.

La mia decisione finale, presa nella Pasqua del 1960, fu di lasciare la Chiesa anglicana che amavo (mi aveva accompagnato dal fonte battesimale all’altare) e di entrare in un mondo estraneo, che esercitava ancora poca attrattiva su di me. Fu la cosa più difficile che io abbia mai fatto. Ma guardando indietro, anni dopo (e solo allora), riconobbi che era stata la cosa migliore.

Ero diventato sacerdote per una ragione molto semplice: per poter celebrare la Messa. È stato meraviglioso la prima volta, quasi 56 anni fa, ed è – se possibile – ancora più meraviglioso oggi. Celebrare la Messa e nutrire il popolo santo di Dio con il pane della vita è un privilegio che va al di là di ogni merito umano. In preparazione alla Messa, da anni dedico mezz'ora alla meditazione in silenzio su ciò che Dio disse a Mosè dal roveto ardente: “Togliti i sandali dai piedi, poiché il luogo dove tu stai è terra santa” (Esodo 3,5).

Il sacerdozio ha anche altre ricompense. C’è la gioia di proclamare il Vangelo: nutrire il popolo di Dio dalla tavola della sua Parola. Un inno evangelico definisce il compito del predicatore in questo modo: “Raccontami l’antica, antica, storia / Di Gesù e del suo amore”. Il Vangelo di Giovanni lo dice in modo più sintetico, nelle parole una volta affisse nella parte interna dei pulpiti, visibile dal predicatore: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (Giovanni 12,21). La storia di Gesù e le sue parole ci sostengono quando siamo deboli, ci rimproverano quando sbagliamo, e ci aprono la bocca al sorriso e ci sciolgono la lingua in canti di gioia (per dirla con il salmista) quando la luce dell’amore di Dio risplende su di noi.

C’è poi anche la gioia del ministero pastorale. Come ogni sacerdote sono stato testimone dei miracoli della grazia di Dio nella gente che ho servito. Meno di dieci anni fa, era entrato nel mio confessionale un uomo ferito e dolorante a causa di un fallimento matrimoniale. Allora era un cattolico “solo Pasqua e Natale”, mentre oggi si comunica tutti i giorni e si confessa regolarmente. Ogni sacerdote ha storie come queste, molte anche più drammatiche.

Sono stati tutti felici i miei quasi 56 anni di sacerdozio? Certamente no. Ma questo è così per qualsiasi vita. Una vedova, parlando del matrimonio, mi disse: “Padre, quando si sale all’altare il giorno del matrimonio, non si vedono le Stazioni della Via Crucis”.

Il sacerdozio mi ha portato sia gioia che sofferenze. Per sette anni sono rimasto senza incarico e letteralmente disoccupato. Sottoposto a un vescovo tedesco, pur essendo residente a St. Louis, ero come un ufficiale dell’esercito distaccato dal suo reggimento. La struttura ecclesiale non sapeva cosa fare con me. La Chiesa per la quale avevo sacrificato tutto sembrava non volermi. Sono sopravvissuto solo grazie alla preghiera. Ma a chiunque mi chieda se mi sono mai pentito della decisione di farmi prete, rispondo subito e con sincerità: mai, neanche un singolo giorno.

Scrivendo, nell’aprile 2005, al mio ex professore di dottorato a Münster, in Germania, Joseph Ratzinger, per esprimere la mia gioia per la sua elezione al Soglio Pontificio, e assicurargli le mie preghiere, ho concluso la lettera “nella gioia del nostro comune sacerdozio”. Cosa si può dire di più? Sin dall’età di dodici anni, il sacerdozio è stato tutto ciò che ho sempre voluto. Se dovessi morire oggi, morirei da uomo felice.



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* Sacerdote dell’Arcidiocesi di St. Louis e storico della Chiesa, padre John Jay Hughes è autore di dodici libri e centinaia di articoli. Questo articolo è tratto dalle sue memorie, “No Ordinary Fool: a Testimony to Grace (Ed. Tate). Chi vuole può scrivergli all’indirizzo: jaystl@sbcglobal.net.


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Notizie dal mondo


India: nel luogo della violenza anticristiana sorge una nuova chiesa
I fedeli hanno partecipato offrendo gratuitamente il proprio aiuto

SIMONBADI, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Alla presenza di più di tremila fedeli, l'Arcivescovo di Bhubaneswar, Raphael Cheenath, ha benedetto l'edificio di una nuova chiesa nel tormentato distretto di Kandhamal, nell'India orientale, scenario negli ultimi anni della violenza anticristiana.

“Siamo orgogliosi di avere una chiesa bella e spaziosa”, ha detto all'Ecumenical News International Bhidhar Digal, un parrocchiano, quando gli è stato chiesto se servivano chiese di quel tipo nel povero Kandhamal.

Costruita a forma ottagonale sul lato di una collina, la nuova chiesa cattolica di Simonbadi è stata definita il luogo di culto più bello di tutto il Kandhamal, un distretto con più di 120.000 cristiani, il 20% della popolazione.

Digal ha affermato che i parrocchiani avevano bisogno di una chiesa così grande per sostituire il vecchio e angusto edificio in cui la domenica si non si riusciva a trovare posto. “La chiesa è un simbolo della nostra fede e vogliamo che sia quanto di meglio è possibile”, ha aggiunto.

Ballerine di danze tribali locali hanno aperto una processione solenne verso la nuova chiesa, mentre centinaia di fedeli si mettevano in fila. Più di 50 sacerdoti hanno partecipato alla benedizione del tempio il 10 dicembre.

Il presbitero cattolico di Simonbadi Mathias Basani Reddy ha detto che la costruzione dell'edificio è iniziata prima delle ondate di violenza nel Kandhamal, che hanno provocato la morte di circa cento fedeli, il danneggiamento di oltre 300 chiese e la distruzione di 5.500 case di cristiani.

Il primo episodio di violenza anticristiana ha avuto luogo nel periodo natalizio del 2007. I successivi fatti violenti sono avvenuti nell'agosto 2008, quando gli estremisti indù hanno accusato i cristiani della morte del leader indù Swami Lakshmanananda Saraswati.

Reddy ha dichiarato che un parroco precedente ha raccolto nel Golfo Persico, dove svolge attualmente il suo ministero, i 4 milioni di rupie (85.000 dollari) necessari per costruire la chiesa, mentre i cattolici locali hanno fornito gratuitamente il proprio lavoro.

Alcuni sacerdoti del luogo affermano che i loro fedeli stanno chiedendo che le chiese danneggiate dagli attentati siano ricostruite, anche prima delle case dei cristiani.

“La gente attende con impazienza la riparazione della chiesa”, ha detto il parroco Jugal Kishore Digal, di Bamunigam, dove l'edificio ecclesiale è stato incendiato durante le violenze del Natale 2007. “Il nostro Arcivescovo, però, insiste sul fatto che la priorità è ricostruire le case dei cristiani che sono state distrutte”.

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Messico: no del Card. Rivera alla nuova legge sui matrimoni gay
Approvata dall'Assemblea Legislativa del Distretto Federale

CITTA' DEL MESSICO, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Per l'Arcivescovo di Città del Messico, il Cardinale Norberto Rivera Carrera, “un'unione formale tra persone dello stesso sesso sarà tutto ma mai un matrimonio, e dal punto di vista dei valori cristiani sarà sempre immorale”.

Lo ha reso noto in alcune dichiarazioni alla stampa dopo che l'Assemblea Legislativa del Distretto Federale (a maggioranza di sinistra), equivalente al Congresso locale della capitale messicana, ha approvato questo lunedì con 39 voti a favore, 20 contrari e cinque astensioni l'unione matrimoniale civile tra omosessuali.

Le coppie dello stesso sesso potranno così accedere a diritti come l'unione patrimoniale per ottenere crediti bancari ed eredità, i benefici della sicurezza sociale e l'adozione di bambini, uno dei punti che ha suscitato più polemiche nella discussione dell'Assemblea.

In questo modo il Distretto Federale diventa la prima città dell'America Latina a permettere questo tipo di unioni.

Città del Messico riconosce da due anni i diritti delle coppie omosessuali mediante una “legge di convivenza”, anche se con alcune restrizioni rispetto alle coppie eterosessuali.

Il Cardinale Rivera ha dichiarato che “non esiste alcuna base razionale o etica per assimilare o stabilire analogie, neanche remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”.

Non è discriminazione

Ad ogni modo, il porporato ha dichiarato che l'opposizione ai matrimoni omosessuali non è una discriminazione, ma “riconoscere e difendere il matrimonio come istituzione essenzialmente eterosessuale”.

“I nostri bambini e i nostri giovani corrono un rischio gravissimo, vedendo come normali questo tipo di unioni, e possono comprendere in modo errato che le differenze sessuali sono un mero tipo di personalità”, ha indicato il Cardinale, dicendo che in questo modo si smette di apprezzare il dualismo della sessualità umana, “che è condizione della procreazione e, quindi, della conservazione e dello sviluppo dell'umanità”.

L'Arcivescovo di Città del Messico ha segnalato di non vedere un grande futuro per questo tipo di unioni, visto che “sono poche le persone omosessuali che desiderano unirsi in questo schema con il proprio partner, come si può vedere nei Paesi che hanno già una legge di questo tipo e in cui si apprezza una tendenza alla diminuzione del numero di unioni simili”.

Ha anche confidato nel fatto che l'approvazione di questa legge “sia l'antidoto perché negli altri Stati della Repubblica non si segua questo esempio perverso” e ha esortato i fedeli laici a impegnarsi “per vie legali contro questi ostacoli alla società e ai suoi valori più preziosi”.

“Gli atti omosessuali chiudono l'atto sessuale al dono della vita. Non derivano da una vera complementarietà affettiva e sessuale”, ha sottolineato.

Il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, che si è espresso a favore dell'iniziativa, dovrà promulgare la nuova riforma del Codice Civile.

In questo caso, le prime nozze potrebbero essere celebrate a febbraio o a marzo, dopo la fine del termine legale di pubblicazione della legge.

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L'Unione della Stampa esorta i media a servire l'umanità
Sottolinea il ruolo del giornalista in un'economia giusta

GINEVRA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- L'Unione Cattolica Internazionale della Stampa sottolinea il ruolo dei media nel costruire la giustizia economica ed esorta i giornalisti a servire l'umanità e il creato piuttosto che le agende personali.

L'Unione lo ha affermato in un documento dal titolo “Media per la Giustizia Sociale ed Economica”, pubblicato questa settimana per “sottolineare l'importanza e il ruolo del giornalismo nel trovare soluzioni durature a problemi che tutti noi affrontiamo nel mondo”.

“La giustizia sociale ed economica rappresenta la base per un mondo prospero e pacifico”, dichiara il documento, rimarcando la “particolare responsabilità” dei giornalisti e degli esperti dei media “di assicurare che la giustizia sociale ed economica a livello mondiale prevalga allo scopo di eliminare i conflitti, le guerre e altri disastri”.

Alla luce di questo, l'Unione della Stampa ha osservato che il documento, adottato durante l'assemblea generale del 31 ottobre, mira a “ispirare i giornalisti e gli esperti dei media perché possano lavorare per stabilire livelli esemplari di giustizia e di pace in tutto il mondo portando la questione nei forum mondiali e a livelli decisionali e di policy-making”.

Il testo è stato preparato da scrittori, giornalisti, docenti ed esperti di Europa, Asia, Nordamerica, Africa, Medio Oriente, Caraibi e Oceania, e sottolinea la “nobile storia del giornalismo”, osservando che “quando in passato si sono verificate delle crisi, i giornalisti sono stati capaci di parlare e di mostrare la via alla gente come i leader”.

Ora, dichiara il documento, il mondo ha a che fare con molte questioni come “consumismo, standardizzazione, distruzione dell'ambiente, globalizzazione, pagamento inadeguato dei lavoratori, dipendenza costante dei poveri dai ricchi”.

L'Unione della Stampa ha anche espresso la speranza che il documento aiuti i giornalisti e gli esperti dei media nel “nobile atto” di esplorare tali questioni e renderle una priorità dell'agenda mondiale.

Benessere globale

“Gli esperti dei media e i giornalisti hanno probabilmente il ruolo più importante da ricoprire rispetto alle questioni sociali ed economiche. Il giornalismo è la professione in cui il pensiero critico e l'analisi approfondita a favore del benessere globale devono precedere ogni parola e ogni azione”.

“In questo senso”, afferma il documento, “nessuno può essere un giornalista se discrimina o svaluta gli altri in nome dell'orgoglio nazionale, etnico o religioso”.

“Un giornalista è al servizio dell'umanità e della natura e non a quello degli interessi di pochi”.

L'Unione dichiara anche che “i media devono superare le differenze – che allo stesso tempo devono essere distinte e apprezzate per servire gli scopi superiori e il benessere di tutti”.

In questo modo, “i media possono portare costantemente alla luce, ogni giorno e ogni minuto, le politiche e le azioni che vanno contro il bene comune e il benessere e le loro devastanti conseguenze”.

“Se i media non sono capaci di fare questo, non c'è nessun altro che possa esporre queste ingiustizie”, ha osservato l'Unione.

Il documento ha anche sottolineato la necessità di “creare media sovranazionali, sovraculturali e al di sopra degli interessi che possano realmente servire l'umanità e prendere in considerazione vari punti di vista ed esperienze di vita diverse”.

“Tutti i giornalisti, gli editori e gli esperti, indipendentemente dalle loro condizioni di lavoro e dal salario, devono considerare questa la loro chiamata suprema a servire l'umanità nel suo insieme”.

“Probabilmente è l'unico modo di progredire e di stabilire gradualmente la giustizia sociale ed economica”.

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La dignità umana vista da cristiani, ebrei e musulmani
27 leader delle tre religioni monoteiste riuniti a Siviglia

SIVIGLIA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Un seminario di riferimento sulle “Implicazioni della dignità umana per le tre tradizioni monoteiste” ha riunito a Siviglia (Spagna) 27 leader cristiani, ebrei e musulmani. Organizzato dalla Fondazione Tre Culture del Mediterraneo, ha contato sulla partecipazione dei Cardinali Kasper e Tauran, del Patriarca Fouad Twal e dell'Arcivescovo di Siviglia, monsignor Juan José Asenjo.

I partecipanti all'incontro, che si è svolto il 9 e il 10 dicembre, sono stati designati dalla Santa Sede, dal Patriarcato Ecumenico, dal Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose e dalla Lega Musulmana Mondiale.

Anche se queste entità mantengono importanti relazioni e dialoghi con varie comunità religiose, spiega un comunicato dei partecipanti, è la prima volta che hanno scelto di unirsi per promuovere l'intesa interreligiosa. I partecipanti provenivano dall'Europa, dal Medio Oriente e dall'America settentrionale e meridionale.

L'incontro è iniziato con il benvenuto e i discorsi di Elvira Saint-Gerons, direttrice della Fondazione Tre Culture; Miguel Lucena, segretario generale dell'Azione Estera della Giunta dell'Andalusia; del Cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo; del Cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso; del rabbino Richard Marker, presidente del Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose; del metropolita di Francia Emmanuel Adamakis del Patriarcato Ecumenico; del dottor Saud Bin Abdullah Al-Ghedayan, direttore del Centro Culturale Islamico di Madrid; di monsignor Juan José Asenjo, Arcivescovo di Siviglia.

Le presentazioni del tema della conferenza sono state affidate al rabbino professor Daniel Sperber, al dottor Saud Bin Abdullah Al-Gedayan e a padre José Ramón Echeverría.

Nel suo intervento, il Cardinale Kasper ha detto che “se vogliamo evitare conflitti dobbiamo fare appello al dialogo: è la condizione per la sopravvivenza della razza umana visto che i tempi sono cambiati e le religioni non possono vivere in modo indipendente, ma devono convivere le une con le altre”.

Dal canto suo, Richard Marker ha chiesto di riconoscere la dignità dell'altro. “E' un modo per generare empatia verso di lui e promuovere in questo modo la via verso la pace”.

Il dialogo deve tuttavia compiere un altro passo, ha ricordato Emmanuel Adamakis: “Deve andare verso la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e il conseguimento della pace senza eccezioni”.

Questo perché, ha affermato Saud Bin Abdullah, “la dignità umana non si realizza se non ci sono un riconoscimento e una garanzia della libertà e dei diritti della persona”.

Monsignor Asenjo ha ricordato che l'Arcidiocesi di Siviglia, nel campo dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso, “cerca di mantenere relazioni non solo corrette, ma anche fraterne e cordiali con altre Chiese o comunità ecclesiali, ad alcune delle quali, soprattutto quelle che provengono dalla tradizione ortodossa, si offrono luoghi per celebrare la divina liturgia”.

“Allo stesso tempo, cerchiamo di mantenere relazioni fraterne con ebrei e musulmani, consapevoli dell'elemento comune che ci unisce come credenti”, ha aggiunto.

I partecipanti hanno lavorato in laboratori, approfondendo i temi “La Santità della vita: assoluta o qualificata?”, “Riconciliando la responsabilità individuale e comune” e “Diritti umani e libertà di religione”.

Le discussioni, dice il comunicato dei partecipanti, si sono sviluppate “in uno spirito di rispetto e amicizia reciproci centrati sui principi di base delle tre tradizioni circa l'inalienabile e divinamente concessa dignità di ogni essere umano. In base a questo, i dibattiti sono stati dedicati al ruolo adeguato e alla responsabilità della religione e dei leader religiosi nel loro rapporto con la società secolare e con Governi di ogni tipo”.

I partecipanti hanno affermato l'indispensabilità di questo tipo di dialoghi, e basandosi su queste interazioni costruttive e positive si sono impegnati “a portare indietro nelle rispettive comunità i messaggi di queste decisioni, ascritti a un mandato, condivisi dalle tre tradizioni monoteiste, per apprezzare il valore infinito, la dignità e diritti di tutta l'umanità”.




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Italia


Natale nei lager nazisti. Il diario dei prigionieri italiani
Soldati che sognano la famiglia, un pranzo e un presepe

di Mariaelena Finessi


ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org). - «All’interno delle baracche, gli altoparlanti diffondono brani natalizi, valzer di Strauss, musiche austriache e musica operistica di vari autori (…). Trascorro questo periodo cullato dai ricordi, con il pensiero ai miei cari: non sanno che sono ancora al mondo e in salute. C’è il pensiero per loro che immagino soggetti ai peggiori bombardamenti, mentre loro penseranno chissà cosa di me». Dalla Prussia orientale, il soldato Carlo Zaltieri ferma su un foglio il suo Natale, anno 1943.

Non è il solo. Cercando infatti negli archivi dell'Anei - Associazione nazionale ex-internati, saltano fuori i diari dei prigionieri italiani nei campi di concentramento. In quelle pagine lise sono custoditi il dolore e la disperazione di quelli che si sono visti privare persino della speranza di un Dio che si fa uomo per salvare anche loro.

Reclusi che cercano, quando se ne ha la forza, di ricreare l'atmosfera di casa. A Benjaminowo, uno dei tanti lager in Polonia, gli internati preparano l'albero: «Abbiamo sradicato un pino nano per ogni baracca e lo abbiamo piantato in piedi tra i castelli dei nostri letti in legno. Non so chi è stato, ma uno di noi ha fatto tante striscioline di carta e le ha appese ai rami dell’albero. Cerchiamo di scaldarci al ricordo di giorni lontani: in ogni angolo si formano gruppi silenziosi e assorti. Fuori nevica e di casa non sappiamo nulla. Qualcuno che ha paura del silenzio, parla con voce monotona dell’albero che preparava per i suoi bambini, ma nessuno lo ascolta» (Paride Piasenti).

Sotto quei pini, senza luci e colori, mancano le letterine dei più piccini e i regali avvolti in variopinte carte d'alluminio: «Per il Natale, il Vescovo di Leopoli, ha fatto confezionare 2000 pacchi dono da distribuire a ciascuno di noi. Il Comando tedesco non è d’accordo. Risponde che non ne abbiamo bisogno perché siamo “graditi ospiti del Reich”» (Gastone Petraglia).

Ognuno cerca allora di imbastire da sé, alla meno peggio, il proprio Natale. C'è chi rovista tra i rifiuti: «Un’ombra nera, accoccolata lì vicino, sta scavando sotto la neve. E’ un giovanissimo prigioniero russo, biondo, con degli occhi grigiastri, sbarrati e stupiti, come quelli di un animale selvatico in gabbia (...) Sta cercando di razzolare nel mucchio in cerca di qualcosa da buttare nello stomaco (...) Mi offre un torsolo di cavolo e guarda compiaciuto l’impeto e la voracità con cui mi avvento sul suo regalo di Natale. Ci guardiamo a lungo negli occhi, intessendo un dialogo a bocca chiusa (...). Due mondi lontani che si vengono incontro e si toccano» (Tommaso Bosi).

Un frate, padre Ernesto Caroli – fondatore dell'Antoniano di Bologna, scomparso solo pochi mesi fa – porta agli uomini il conforto della fede. E anche quello del cibo. Ha con sé un altarino da campo di legno e tutto il necessario per la Messa: crocifisso, ostie, ampolline e paramenti sacri. Un giorno, viene bloccato dalla sentinella che lo interroga su cosa stia nascondendo sotto l'abito. Padre Ernesto, facendo spuntare pane, zucchero, uova, biscotti, replica sorridente al militare: “Gottesdienst”, servizio divino. Il fucile si abbassa. La scena si ripeterà molte altre volte con la sentinella di turno che continuerà a girarsi dall’altra parte.

Altri internati riescono a racimolare qualcosa per mettere in piedi un pranzo che non sia solo di scarti e patate. Fervore di cucine, si lavora individualmente o in gruppo. «Io non potrò fare nulla perché non ho che riso e farina, senza condimento alcuno, ma non me ne importa nulla. Se il Natale non è con la propria famiglia, o con la propria donna e i figli, non è Natale» (Gianfranco Ferria Contin).

É inutile, il pensiero corre alla casa lontana, ai bambini nati e a quelli che non si è visti nascere perché la guerra è stata più veloce d'ogni legge naturale. Dalla strada arriva forte il suono di una radio e il canto “Stille Nacht, Heilige Nacht” intonato da una voce femminile. «Una donna sulla porta, gli occhi alzati al cielo, canta a squarciagola. Ci uniamo anche noi al canto e lei aumenta il volume della voce» (Carlo Zaltieri). Ha il marito ed il figlio al fronte. Il canto è diretto a loro.

Quella guerra da lì a poco terminerà. Altre ne inizieranno ma resteranno certe circostanze, uguali in ogni conflitto, e in ogni angolo di mondo: la parola “madre” che è su tutte le labbra, e i figli che attendono i padri. E uguale resterà la domanda del soldato che uccide o si nasconde a scampare la propria vita, e che fu la stessa del Giobbe biblico: dov'è Dio?

«Come poteva nascere Gesù Bambino qui? – annota Domenico Saputo - Come poteva permettere tutto ciò? (...). Noi eravamo i testimoni della brutalità, noi dovevamo vivere per raccontare affinché in futuro uomini, donne e bambini non vivessero più in case diroccate, defraudati della loro vita, della loro infanzia», vittime e spettatori della barbarie. «Era il Natale più triste della mia vita. Era il Natale della mia crescita e della mia maturazione. Dovevo viverlo così, per raccontarlo agli altri, per non dimenticare».

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Interviste


L'albero e il presepe in piazza San Pietro
Intervista ai due responsabili, gli architetti Facchini e Bellano

 

di Silvia Gattas


ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Un maestoso abete proveniente dal Belgio e un presepe allestito su una scenografia di 300 metri quadrati, con la natività rappresentata in una grotta realizzata in polistirolo.

Piazza San Pietro si illumina per il Natale, grazie all’albero di Natale, che quest’anno arriva dalla Vallonia, e al presepe che verrà scoperto il 24 sera.

A fornirci tutte le curiosità e i dettagli sui preparativi sono l’architetto Giuseppe Facchini, responsabile dei progetti al Governatorato del Vaticano e l’architetto Barbara Bellano, curatore dei due simboli del Natale in Vaticano.

“L’albero quest’anno viene dal Belgio – ha spiegato l’architetto Facchini - è alto 30 metri, è stato allestito dai nostri tecnici con decorazioni natalizie per un totale di circa 2mila palle di Natale”.

“L’albero, un abete rosso, ha avuto un trasporto speciale e ha avuto qualche problema sulle Alpi a causa della neve – ha aggiunto –. Poi però tutto si è svolto regolarmente, ed è giunto in piazza San Pietro il 4 dicembre, mentre venerdì 18 dicembre c’è stata la tradizionale cerimonia di accensione delle luci, alla presenza della delegazione belga”.

Quello di quest’anno è un albero a impatto zero?

Facchini: Gli alberi sono tutti uguali non ci sono alberi a impatto zero, o a impatto uno o due. Quelli scelti per piazza San Pietro sono sempre abeti molto anziani e molti vecchi. Si può dire che l’eliminazione dalle foreste di questi alberi favorisce, in un certo senso, lo sviluppo degli alberi più piccoli che sono vicini; non è assolutamente una operazione negativa. Quando poi l’albero viene smontato da piazza San Pietro, viene utilizzato in altri modi, e comunque non viene assolutamente né buttato, né sprecato né distrutto in alcun modo. Non ci sono effetti negativi nemmeno nel taglio degli alberi.

Come viene scelta la regione che donerà l’albero?

Facchini: Vengono fatte delle richieste dai vari Paesi e si forma una sorta di lista d’attesa o di prenotazione. Quindi si segue un criterio temporale, in base alle prenotazioni. Abbiamo già “occupati” i prossimi anni.

L’abete rosso, proveniente dalla città termale di Spa, in Belgio, ha 90 anni, è alto circa 30 metri, ha un diametro di 7 metri e pesa 30 tonnellate. La pianta è stata selezionata dall’Unione dei Vivaisti delle Ardenne; è giunta il 4 dicembre in piazza San Pietro, dove è stata presa in consegna dai servizi tecnici del Governatorato che hanno provveduto al suo allestimento.

Insieme al maestoso abete sono stati offerti circa quaranta abeti più piccoli, per la decorazione natalizia dell'appartamento del Papa, della Sala Clementina e di uffici della Curia. Un albero, magnifico esemplare di Picea abies, cresciuto nel cuore della Foresta delle Ardenne, nota anche come Ardenne bleue per il suo patrimonio naturalistico e ambientale, foresta certificata Pefc, per la corretta gestione forestale.

Parliamo ora del presepe. Quali sono le novità di quest’anno?

Bellano: Il presepe ha un impianto che siamo tenuti a mantenere fisso ogni anno. Allestiamo l’intera scenografia su una superficie di circa 300 metri quadrati, con un fronte di 25 metri. Tradizionalmente la natività viene posta al centro e ai lati vengono ricreate due scene. Quest’anno la scena della nascita di Gesù è raffigurata all’interno di una grotta collocata ai margini della città. La natività deve essere ben visibile fin dall’inizio di via della Conciliazione. Scegliamo ogni anno degli episodi della vita di Gesù e li rappresentiamo ai lati della scena principale. Però l’impianto generale rimane sempre lo stesso.

Quest’anno, per la scena alla destra della natività, ci siamo ispirati ad alcuni brani della vita di Gesù che si svolgono sulle sponde del Lago di Tiberiade, rappresentando temi legati alla pesca, e al tema dell’evangelizzazione; è stato immaginato un ricovero di pescatori, arricchito con la prua di una nave, delle reti, dei remi ed alcuni pesci. A sinistra invece viene rappresentata una scena legata alla pastorizia e alla vita familiare. Altra novità è che la natività quest’anno viene rappresentata in una grotta, con dei ruscelli, all’interno c’è anche il fuoco. Acqua e fuoco sono simboli tradizionali che ogni anno vogliamo riproporre.

Quanti sono i personaggi utilizzati?

Bellano: La rappresentazione è completata da una serie di personaggi, circa 15, dalle dimensioni maestose: alcuni raggiungono un’altezza di quasi 3 metri. Sono realizzati in cartapesta; in pratica si tratta di manichini che vengono ricoperti e vestiti.

L’abbigliamento, che cambia ogni anno a seconda delle scene rappresentate, viene curato dalle suore degli Arazzi. Parte delle statue, invece, proviene dal presepe allestito nel 1842 da San Vincenzo Pallotti nella Basilica di Sant’Andrea della Valle.

Da quanto tempo preparate il progetto del presepe?

Bellano: Generalmente partiamo da dopo le vacanze estive. Intorno a settembre-ottobre cominciamo a realizzare i primi bozzetti di progetto. Poi dopo la festa dei santi e dei morti comincia il lavoro vero e proprio. Nel mese di dicembre cominciano i lavori di tutti gli operai e di tutta la maestranza del Vaticano, che lavora sodo per la realizzazione del presepe: ci sono i carpentieri, i giardinieri, gli elettricisti...

Il presepe sarà scoperto il 24 dicembre, in serata. Il Papa dovrebbe porre una luce sulla finestra – come avviene ogni anno - mentre il 31 sera, dopo il Te Deum, dovrebbe visitare brevemente il presepe.






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Udienza del mercoledì


Benedetto XVI: Dio si fa Bambino per vincerci con l'amore
In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini riunitisi nell'aula Paolo VI per la tradizionale Udienza generale.

Nella sua riflessione il Papa si è soffermato sul mistero del Natale ormai prossimo.

 


* * *

Cari fratelli e sorelle,

con la Novena di Natale, che stiamo celebrando in questi giorni, la Chiesa ci invita a vivere in modo intenso e profondo la preparazione alla Nascita del Salvatore, ormai imminente. Il desiderio, che tutti portiamo nel cuore, è che la prossima festa del Natale ci doni, in mezzo all’attività frenetica dei nostri giorni, serena e profonda gioia per farci toccare con mano la bontà del nostro Dio e infonderci nuovo coraggio.

Per comprendere meglio il significato del Natale del Signore vorrei fare un breve cenno all’origine storica di questa solennità. Infatti, l’Anno liturgico della Chiesa non si è sviluppato inizialmente partendo dalla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Perciò la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma è la Pasqua; la risurrezione di Cristo fonda la fede cristiana, è alla base dell’annuncio del Vangelo e fa nascere la Chiesa. Quindi essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, facendoci coinvolgere nel dinamismo che è originato dal Battesimo e che porta a morire al peccato per vivere con Dio (cfr Rm 6,4).

Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al Libro del profeta Daniele, scritto verso il 204. Qualche esegeta nota, poi, che in quel giorno si celebrava la festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 avanti Cristo. La coincidenza di date verrebbe allora a significare che con Gesù, apparso come luce di Dio nella notte, si realizza veramente la consacrazione del tempio, l’Avvento di Dio su questa terra.

Nella cristianità la festa del Natale ha assunto una forma definita nel IV secolo, quando essa prese il posto della festa romana del "Sol invictus", il sole invincibile; si mise così in evidenza che la nascita di Cristo è la vittoria della vera luce sulle tenebre del male e del peccato. Tuttavia, la particolare e intensa atmosfera spirituale che circonda il Natale si è sviluppata nel Medioevo, grazie a san Francesco d’Assisi, che era profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, nella Vita seconda racconta che san Francesco «Al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato a un seno umano» (Fonti Francescane, n. 199, p. 492). Da questa particolare devozione al mistero dell’Incarnazione ebbe origine la famosa celebrazione del Natale a Greccio. Essa, probabilmente, fu ispirata a san Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e dal presepe di Santa Maria Maggiore in Roma. Ciò che animava il Poverello di Assisi era il desiderio di sperimentare in maniera concreta, viva e attuale l’umile grandezza dell’evento della nascita del Bambino Gesù e di comunicarne la gioia a tutti.

Nella prima biografia, Tommaso da Celano parla della notte del presepe di Greccio in un modo vivo e toccante, offrendo un contributo decisivo alla diffusione della tradizione natalizia più bella, quella del presepe. La notte di Greccio, infatti, ha ridonato alla cristianità l’intensità e la bellezza della festa del Natale, e ha educato il Popolo di Dio a coglierne il messaggio più autentico, il particolare calore, e ad amare ed adorare l’umanità di Cristo. Tale particolare approccio al Natale ha offerto alla fede cristiana una nuova dimensione. La Pasqua aveva concentrato l’attenzione sulla potenza di Dio che vince la morte, inaugura la vita nuova e insegna a sperare nel mondo che verrà. Con san Francesco e il suo presepe venivano messi in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua benignità, che nell’Incarnazione del Verbo si manifesta agli uomini per insegnare un nuovo modo di vivere e di amare.

Il Celano racconta che, in quella notte di Natale, fu concessa a Francesco la grazia di una visione meravigliosa. Vide giacere immobile nella mangiatoia un piccolo bambino, che fu risvegliato dal sonno proprio dalla vicinanza di Francesco. E aggiunge: «Né questa visione discordava dai fatti perché, a opera della sua grazia che agiva per mezzo del suo santo servo Francesco, il fanciullo Gesù fu risuscitato nel cuore di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa» (Vita prima, op. cit., n. 86, p. 307). Questo quadro descrive con molta precisione quanto la fede viva e l’amore di Francesco per l’umanità di Cristo hanno trasmesso alla festa cristiana del Natale: la scoperta che Dio si rivela nelle tenere membra del Bambino Gesù. Grazie a san Francesco, il popolo cristiano ha potuto percepire che a Natale Dio è davvero diventato l’"Emmanuele", il Dio-con-noi, dal quale non ci separa alcuna barriera e alcuna lontananza. In quel Bambino, Dio è diventato così prossimo a ciascuno di noi, così vicino, che possiamo dargli del tu e intrattenere con lui un rapporto confidenziale di profondo affetto, così come facciamo con un neonato.

In quel Bambino, infatti, si manifesta Dio-Amore: Dio viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà; Dio si fa Bambino inerme per vincere la superbia, la violenza, la brama di possesso dell’uomo. In Gesù Dio ha assunto questa condizione povera e disarmante per vincerci con l’amore e condurci alla nostra vera identità. Non dobbiamo dimenticare che il titolo più grande di Gesù Cristo è proprio quello di "Figlio", Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine, che prolunga il riferimento all’umile condizione della mangiatoia di Betlemme, pur corrispondendo in maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del "Figlio".

La sua condizione di Bambino ci indica, inoltre, come possiamo incontrare Dio e godere della Sua presenza. E’ alla luce del Natale che possiamo comprendere le parole di Gesù: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Chi non ha capito il mistero del Natale, non ha capito l’elemento decisivo dell’esistenza cristiana. Chi non accoglie Gesù con cuore di bambino, non può entrare nel regno dei cieli: questo è quanto Francesco ha voluto ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutti tempi, fino ad oggi. Preghiamo il Padre perché conceda al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, proprio come fece Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano – riferendosi all’esperienza dei pastori nella Notte Santa (cfr Lc 2,20) - racconta a proposito di quanti furono presenti all’evento di Greccio: "ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia" (Vita prima, op. cit., n. 86, p. 479).

E' questo l'augurio che formulo con affetto a tutti voi, alle vostre famiglie e a quanti vi sono cari. Buon Natale a voi tutti!

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo ora un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana e, con speciale pensiero ai fedeli di Boiano e ai ragazzi di Verbania-Pallanza. Esorto tutti ad essere ovunque gioiosi testimoni del Vangelo.

Desidero, poi, salutare i giovani, i malati e gli sposi novelli. A pochi giorni dalla solennità del Natale, possa l'amore, che Dio manifesta all'umanità nella nascita di Cristo, accrescere in voi, cari giovani, il desiderio di servire generosamente i fratelli. Sia per voi, cari malati, fonte di conforto e di serenità. Ispiri voi, cari sposi novelli, a consolidare la vostra promessa di amore e di reciproca fedeltà.

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]

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La sfida del cambiamento climatico nella lotta alla povertà
Intervento della Santa Sede alla Conferenza generale dell'Unido
ROMA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato il 10 dicembre da monsignor Michael Banach, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Vienna, in occasione della tredicesima sessione della Conferenza generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (Unido).




* * *

Signor presidente,

la delegazione della Santa Sede desidera aggiungere la propria voce al coro delle congratulazioni a lei nonché agli altri membri del Bureau che sono stati eletti all'inizio di questa settimana. Le nostre congratulazioni vanno anche al dr. Kandeh Yumkella perché è stato nuovamente nominato direttore generale dell'Organizzazione per lo Sviluppo Industriale delle Nazioni Unite (unido). Sono certo che egli consoliderà il trend positivo dell'evoluzione dell'organizzazione e darà ad essa un ulteriore sviluppo.

Nel suo Messaggio in occasione della Giornata Mondiale della Pace del 2009, Papa Benedetto XVI ha scritto: «Combattere la povertà implica un'attenta considerazione del complesso fenomeno della globalizzazione. Tale considerazione è importante già dal punto di vista metodologico, perché suggerisce di utilizzare il frutto delle ricerche condotte dagli economisti e sociologi su tanti aspetti della povertà. Il richiamo alla globalizzazione dovrebbe, però, rivestire anche un significato spirituale e morale... Resta comunque vero che ogni forma di povertà ha alla propria radice il mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana. Quando l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera “ecologia umana”, si scatenano anche le dinamiche perverse della povertà, com'è evidente in alcuni ambiti»

Queste parole descrivono bene qual è il fulcro di questa Tredicesima Conferenza che offre l'occasione per riflettere sui progressi compiuti nelle tre aree prioritarie dell'unido, ovvero riduzione della povertà attraverso attività produttive, creazione della capacità commerciale, ambiente ed energia. La mia delegazione è interessata ai risultati della Tredicesima Conferenza Generale perché la Santa Sede ha sempre riconosciuto la centralità della persona umana nella sollecitudine per uno sviluppo equo, accessibile e sostenibile.

Il rispetto per la dignità e per la libertà di ogni persona interessata dai pogrammi di sviluppo deve essere la forza trainante nella nostra opera. Infatti, la Chiesa cattolica ha sempre sottolineato che è necessario un equilibrio fra sviluppo sociale ed economico industriale. Il dibattito sullo sviluppo industriale rivela che nessuna persona o nessun gruppo vive in isolamento. Ciò che colpisce uno colpisce altri. La mia delegazione crede che i benefici del discutere le questioni e nel proporre soluzioni per rimuovere gli ostacoli che sfidano lo sviluppo sostenibile si sentiranno in ogni parte del mondo.

In quest'idea di solidarietà umana non possiamo perdere di vista la necessità di un'amministrazione responsabile che richiede attenzione al bene comune, che va oltre limitati interessi individuali a tutti i livelli.

L'amministrazione responsabile e la solidarietà umana autentica sono rivolte alle tre aree prioritarie e devono anche rimanere il punto di partenza nel dibattito sull'accesso allo sviluppo industriale. Gli effetti del cambiamento climatico, la questione delle risorse idriche e della sicurezza alimentare, la mobilitazione delle risorse energetiche e il turismo sostenibile devono essere collegati ai dibattiti su sanità, educazione, alimentazione, politica abitativa e sicurezza.

Nel parlare di sicurezza, è importante ricordare che l'energia è centrale per ottenere obiettivi sostenibili di sviluppo. Con circa due miliardi di persone ancora prive dell'accesso all'elettricità nel mondo e un numero ancora più alto di persone che usano biomasse tradizionali, migliorare l'accesso a servizi energetici affidabili, alla portata di tutti e a basso impatto ambientale è una importante sfida al fine di sradicare la povertà. È anche urgente trasformare i sistemi globali di energia perché le modalità attuali stanno causando grave danno alla salute umana, al clima della Terra e ai sistemi ecologici da cui dipende tutta la vita e perché l'accesso a servizi energetici affidabili e puliti è un prerequisito vitale per alleviare la povertà. Sebbene la quantità assoluta dell'uso di energia rinnovabile mondiale sia aumentata in modo significativo, la percentuale delle energie rinnovabili nell'offerta primaria totale di energia a livello mondiale è aumentata solo marginalmente negli ultimi tre decenni. Alcune tecnologie energetiche rinnovabili sono già mature ed economicamente concorrenziali, ma lo sviluppo di energie rinnovabili continua a essere una necessità umana, ecologica, economica e strategica e dovrebbe essere una priorità nei progetti pubblici di ricerca.

In considerazione dei progressi compiuti durante questi dibattiti, la Santa Sede desidera affermare, ancora una volta, che prestare semplicemente aiuto, per quanto lodevole e necessario, non è sufficiente a trattare tutti gli aspetti della solidarietà umana che devono essere offerti ai bisognosi. Le nazioni devono cooperare per una efficacia rinnovata e maggiore delle strutture internazionali in sfere quali l'economia, il commercio, lo sviluppo industriale, la finanza e il trasferimento di tecnologia.

Presidente!

Desidero assicurare quest'Assemblea del fatto che la Chiesa cattolica continuerà a sviluppare e a promuovere nelle aree critiche programmi specifici, che cercano di migliorare la vita umana in alcune delle zone più povere e meno sviluppate e, così facendo, contribuiscono a migliorare la vita di tutti.

La mia delegazione plaude ai progressi compiuti in questa Conferenza Generale e attende le iniziative future che saranno il prossimo passo verso il conseguimento di obiettivi di sviluppo equo, accessibile e sostenibile per tutti.

[Traduzione a cura de L'Osservatore Romano]

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