venerdì 22 gennaio 2010

ZI100122

ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 22 gennaio 2010

Santa Sede

Notizie dal mondo

Italia

Interviste

Parola e vita

Documenti


Santa Sede


I conti vaticani potrebbero migliorare quest'anno
Nonostante questo, la situazione è di "perdurante difficoltà"

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il bilancio della Santa Sede per il prossimo esercizio 2010 fa sperare in “possibili andamenti economici e finanziari” che, malgrado la situazione di “perdurante difficoltà”, “indicano qualche leggero miglioramento”.

Lo afferma un comunicato diffuso dalla Sala Stampa sul risultato dei lavori svolti questi mercoledì e giovedì dal Consiglio dei Cardinali che si occupa dello studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede.

Il Consiglio, presieduto dal Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, ha dedicato questi due giorni a esaminare due bilanci: quello della Santa Sede e quello del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, che procedono in modo separato.

Alla riunione erano presenti i Cardinali Joachim Meisner (Colonia, Germania), Antonio María Rouco Varela (Madrid, Spagna), Dionigi Tettamanzi (Milano), Wilfrid Fox Napier (Durban, Sudafrica), Anthony Olubunmi Okogie (Lagos, Nigeria), Juan Luis Cipriani Thorne (Lima, Perù), Marc Ouellet (Québec, Canada), Odilo Pedro Scherer (San Paolo, Brasile) e Agostino Vallini, Vicario Generale per la Diocesi di Roma.

Non hanno potuto essere presenti per motivi personali i Cardinali Jorge Liberato Urosa Savino (Caracas, Venezuela) e Nicholas Cheong Jinsuk (Seul, Corea).

Erano presenti anche il presidente, il segretario e il contabile della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, rispettivamente i monsignori Velasio De Paolis e Vincenzo Di Mauro e il laico Stefano Fralleoni.

Hanno assistito inoltre i rappresentanti del Governatorato dello Stato vaticano – il Cardinale Giovanni Lajolo (presidente) e monsignor Carlo Maria Viganò (segretario) – e i rappresentanti dell'amministrazione del Patrimonio della Santa Sede – il Cardinale Attilio Nicora (presidente) e monsignor Domenico Calcagno (segretario).

Lo stesso Papa Benedetto XVI ha realizzato una breve visita ai Cardinali riuniti per ascoltare le loro osservazioni e li ha ringraziati per “la preziosa collaborazione offerta alla Sede Apostolica”.

Monsignor De Paolis ha spiegato che il bilancio preventivo della Santa Sede, che comprende tutte le Congregazioni (tranne quella per l'Evangelizzazione dei Popoli, che ha la propria amministrazione) e i mezzi di comunicazione vaticani, “riflette la speranza di possibili andamenti economici e finanziari che, nonostante il quadro generale di perdurante difficoltà, indicano qualche leggero miglioramento”.

La maggior parte delle spese, spiega il comunicato, riguarda gli stipendi dei lavoratori della Santa Sede, 2.668 persone. Anche se non si prevede un aumento del personale, afferma il testo, “il relativo onere finanziario è ugualmente in crescita a motivo dell’adeguamento degli stipendi al costo della vita”.

Un'altra fonte di grandi spese è il mantenimento dei mezzi di comunicazione (la “Radio Vaticana”, il Centro Televisivo Vaticano e “L'Osservatore Romano”), che devono essere considerati “nel quadro dell’attività missionaria della Santa Sede”.

“Pur tenendo conto dell’attuale situazione economica mondiale, è stata rilevata la necessità pastorale di suscitare una maggior attenzione dei fedeli, più sensibili a contribuire a progetti specifici e a loro più prossimi”.

In questo senso, sono stati invitati a partecipare alla riunione il direttore generale della “Radio Vaticana”, padre Federico Lombardi, e il direttore amministrativo, Alberto Gasbarri.

Quanto al secondo bilancio, presentato da monsignor De Paolis, mostra, secondo il comunicato, che l'amministrazione del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano “ha sostanzialmente superato le difficoltà degli esercizi precedenti, riacquistando un assetto che permette di guardare con maggior fiducia al futuro”.

Il Governatorato è incaricato degli edifici e delle strutture dello Stato, attività in cui lavorano attualmente 1.884 persone.

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Il nuovo sottosegretario di Giustizia e Pace si racconta
Parla a ZENIT Flaminia Giovanelli
di Carmen Elena Villa

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il giorno dopo essere stata nominata sottosegretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Flaminia Giovanelli ha interrotto per un momento il trasferimento nel suo nuovo ufficio per parlare con ZENIT del suo incarico nel dicastero, in cui lavora dal 1974.

Ha ricevuto la nomina, confessa, “con senso di gratitudine verso il Santo Padre, che ha detto che noi donne dobbiamo assumere un certo ruolo nella Chiesa”.

La Giovanelli, 61 anni, sostituirà monsignor Frank Dewane. E' nubile, vive sola con il suo gatto e ama andare in ufficio in bicicletta. Dopo il liceo alla Scuola Europea di Bruxelles si è laureata in Scienze Politiche a Roma, ed è diplomata in Biblioteconomia e Scienze Religiose. Parla quattro lingue: italiano, inglese, francese e spagnolo.

L'idea di creare il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace è nata durante il Concilio Vaticano II per promuovere lo sviluppo dei Paesi poveri e la giustizia sociale internazionale come indica la Costituzione Gaudium et spes. Papa Paolo VI lo ha istituito formalmente con il Motu Proprio Catholicam Christi Ecclesiam del 1967.

Più di tre decenni al servizio del dicastero

Sono trascorsi 36 anni da quando Flaminia è entrata a far parte del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Ha iniziato a lavorarvi con l'obiettivo di organizzare un po' questo dicastero: sia il personale che l'abbondante documentazione.

Questo primo compito che le hanno assegnato, afferma, è stato una specie di “straordinaria finestra sul mondo”. Nel 1989, alla fine della Guerra Fredda, iniziò un rapporto più stretto con le Chiese particolari dei Paesi dell'ex blocco comunista. Si occupò poi delle varie commissioni Giustizia e Pace delle Diocesi europee, molte delle quali vennero create dopo il crollo del Muro di Berlino.

Guardando all'America Latina, Flaminia ricorda che negli anni Ottanta non c'era alcun Paese del continente che non le chiedesse aiuto per pagare o far ridurre il debito estero.

Il nuovo sottosegretario afferma che nel suo lavoro al dicastero ha affrontato anche la “molteplicità dei carismi” che arricchiscono la vita ecclesiale. Ha visto come chi vi lavora si è sforzato di non cadere né nell'estremo dell'attivismo privo di preghiera né in un falso spiritualismo senza impegno sociale.

Del Cardinale africano Bernardin Gantin, presidente del Pontificio Consiglio tra il 1976 e il 1984, dice che è stato “una persona straordinaria da un punto di vista umano”. “Aveva un'anima straordinaria da pastore”.

Gantin è stato sostituito nel suo incarico dal Cardinale Roger Etchegaray dal 1984 al 1998. “Era un momento molto agitato perché era stato inviato dal Papa in Yugoslavia, dove c'era la guerra”, ha riconosciuto, sottolineando “la capacità di mediazione a livello politico e a livello di testimonianza” del porporato.

E come dimenticare il Cardinale vietnamita François Xavier Nguyen Van Thuan, presidente del dicastero dal 1998 al 2002, in carcere per 13 anni perché arrestato dal regime comunista del suo Paese? Morto otto anni fa, è in corso la sua causa di beatificazione. Flaminia Giovanelli lo definisce “un'icona dei diritti umani”, ricordando che “aveva un'umanità straordinaria” ed era “pieno di spirito di umorismo”.

Del Cardinale Renato Raffaele Martino, che ha guidato il dicastero fino all'anno scorso, ricorda che “è stato un promotore del compendio della Dottrina Sociale della Chiesa” e come pochi altri “è andato in giro per il mondo”. “Ho imparato da lui il servizio disinteressato alla Chiesa. Quando doveva andarsene, le valigie erano già fatte e lui continuava a lavorare”.

L'attuale presidente, l'africano Peter Kodwo Appiah Turkson, proveniente dal Ghana, è per Flaminia “un uomo molto dinamico, un grande personaggio”, che “non per niente ha avuto questa responsabilità”.

“Penso che sicuramente per l' Africa sarà un aiuto notevole”, ha aggiunto.

Le nuove sfide del presente

Per la Giovanelli, uno dei compiti attuali più importanti per il dicastero è continuare a riflettere sull'ultima Enciclica di Benedetto XVI, la Caritas in Veritate. E', inoltre, importante intervenire per salvaguardare la libertà religiosa, soprattutto in Paesi in cui tanti cristiani subiscono persecuzioni, come Israele, Libano e India.

Allo stesso modo, sostiene che il Pontificio Consiglio deve affrontare sempre più la sfida delle migrazioni nel mondo. “A settembre ho partecipato all'assemblea generale delle commissione di Giustizia e Pace in Europa e abbiamo parlato dei problemi delle migrazioni, con i giovani che venivano dal Centro Europa e facevano dei viaggi pazzeschi per arrivare a destinazione”, ha ricordato.

Con questa nomina, Flaminia è entrata di diritto nella ristretta lista di donne che nella storia della Chiesa hanno ricoperto l'incarico di sottosegretario in Vaticano. La laica australiana Rosemary Goldie è stata sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici dal 1966 al 1976. E attualmente suor Enrica Rosanna, F.M.A, è sottosegretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.

La Giovanelli afferma che il suo lavoro, più che un incarico, è una vocazione, “perché è un servizio all'uomo e alla persona. E' un servizio alla Chiesa e al rapporto lavorativo”.

E' anche convinta che il ruolo della donna nella Chiesa sia fondamentale anche se non sempre visibile. “La donna esprime una prospettiva particolare. Il suo giudizio è diverso e può essere complementare a quello che si vede in modo più evidente”, ha concluso.

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Il 25 gennaio sarà presentato a Benedetto XVI il Codex Pauli
Per la chiusura della Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani

ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Lunedì 25 gennaio l'abate benedettino Edmund Power presenterà a Benedetto XVI l'opera monumentale “Codex Pauli”, finalizzata a commemorare l’Anno dedicato al bimillenario della nascita di san Paolo.

L'occasione è offerta dai Vespri di chiusura della Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani (18-25 gennaio) che il Papa celebrerà nella Basilica di San Paolo.

Concepita a imitazione degli antichi incunabili, l'opera si segnala per l'eccezionale valore artistico, culturale ed ecumenico ed è edita dall'Abbazia di San Paolo fuori le Mura in collaborazione con il magazine “Paulus”.

Il Codex Pauli ospita i contributi inediti, appositamente preparati, del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I; del Patriarca di Mosca e di Tutte le Russie, Kirill; di Gregorios III Laham; del dr. Rowan Williams, Primate della Comunione Anglicana; del dr. Eduard Lohse, Vescovo emerito della Chiesa Evangelica di Hannover; e di molti altri.

Nel suo contributo, il Patriarca Bartolomeo I scrive che “per San Paolo, l'unicità da una parte e l'ecumenicità dall'altra sono, nello stesso tempo, sia virtù a cui dovremmo aspirare sia doni che vengono dall'alto. Inoltre, i concetti di unità e di ecumenicità non son semplicemente metaforici, ma ontologici, nel contenuto”.

Per il Patriarca Kirill, “facendosi imitatore dell'Apostolo delle genti, il cristiano è chiamato a essere una viva immagine del Signore e aiutare così il mondo moderno ad accogliere con fede e speranza la Parola di Dio”.

In questo senso, aggiunge, l'edizione del Codex Pauli “sarà un degno contributo al giubileo del Protoapostolo e aiuterà i lettori a mettere in pratica nella propria vita il messaggio divino trasmessoci da san Paolo”.

“Possano tutti gli uomini nel mondo – auspica il Patriarca melkita Gregorios III Laham – camminare sulla via di Damasco, affinché il mondo cambi e gli uomini possano passare dalle tenebre alla luce, dal peccato alla giustizia, dalla persecuzione all'amore, dalla violenza alla bontà, dal terrorismo alla solidarietà, dal fondamentalismo all'apertura e dallo spirito di vendetta ai sentimenti che san Paolo esprime quando esorta i fedeli ad avere in sé i pensieri e gli atteggiamenti che sono in Gesù Cristo”.

“La missione dell'apostolo – scrive l'Arcivescovo Rowan Williams –, così come Paolo la comprende, è di indicare oltre la propria impresa individuale, di dare spazio alla maturazione dei suoi 'figli', così che anch'essi possono imparare a indicare oltre se stessi, nell'amore a caro prezzo, e a esprimere così la pienezza di Cristo, il cui rifiuto e la cui crocifissione, come dice il Vangelo, ne fanno non solo il fondamento ma la pietra angolare del nuovo tempio, il suo Corpo, la sua Chiesa”.

Per il Vescovo Eduard Lohse, “il messaggio della giustificazione per fede, così come l'annuncia Paolo, è secondo la sua salda convinzione la sola interpretazione valida del Vangelo, che va testimoniato a Giudei e Greci, a tutto il mondo. 'Poiché nel Vangelo viene rivelata la giustizia di Dio di fede in fede, come è detto nella Scrittura: colui che è giusto per fede vivrà' (Rm 1,17)”.

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Notizie dal mondo


Il Cardinale Rodríguez Maradiaga propone l'adozione di bambini di Haiti
E di seminaristi da parte di altre Diocesi

di Alma C. Guerrero

ACAPULCO, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L'Arcivescovo di Tegucigalpa (Honduras) e presidente di Caritas Internationalis, il Cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, ha proposto di adottare i bambini rimasti orfani ad Haiti dopo il terremoto.

Intervenendo al Primo Congresso Nazionale Messicano di Sacerdoti “Fedeltà e fraternità sacerdotale”, conclusosi questo venerdì, ha considerato che questa iniziativa cercherebbe di dare loro un'opportunità per “avere un futuro” nella tragedia che stanno vivendo.

“Ci sono tanti bambini che rimarranno orfani! - ha dichiarato -. E' questo uno dei punti che si stanno affrontando. Forse dovremo promuovere questo discorso. Dovremo muoverci perché anche questi bambini possano avere un futuro”.

Il Fondo delle Nazioni Unite per l'Infanzia (UNICEF) ha denunciato questo venerdì il rapimento di almeno 15 bambini non accompagnati dagli ospedali di Haiti.

Il Cardinale Rodríguez Maradiaga ha riconosciuto che, nel caso in cui proceda la proposta di adozione, se ne debbono vigilare attentamente i meccanismi, visto che a volte nell'iter di difesa dei minori “entrano affari loschi” e vari interessi.

Nel suo intervento iniziale, il presidente di Critas Internationalis ha detto che una delle priorità che affronta il popolo di Haiti è la mancanza di acqua e cibo, così come le condizioni insalubri per assistere i feriti e incenerire le centinaia di cadaveri disseminate in tutta la capitale.

Il porporato ha smentito che esista un monopolio da parte degli Stati Uniti per prendere il controllo del Paese, dichiarando che la missione fondamentale in questo momento è dare priorità agli aiuti, che arrivano da varie Nazioni.

Nonostante le condizioni avverse che devono affrontare i piloti che giungono all'aeroporto di Port-au-Prince, sottolinea, si cerca di controllare il traffico aereo per coadiuvare le operazioni di sostegno e poter dare la priorità ai velivoli che trasportano aiuti.

La tragedia, riconosce, è che non è possibile identificare tutti i cadaveri a causa del clima, che favorisce la rapida decomposizione e aumenta il pericolo di epidemie. “Ci sono ospedali molto danneggiati, pazienti che hanno bisogno di operazioni urgenti. Speriamo che si possa salvare il maggior numero di vite”, ha dichiarato.

Di fronte a questo panorama, Rodríguez Maradiaga ha confessato che l'aspetto più difficile sarà la ricostruzione, perché tutte le infrastrutture educative, governative, sanitarie e anche ecclesiali sono state distrutte.

Ricordando il passato dei conflitti politici vissuti da Haiti, il Cardinale ha spiegato di aver proposto alla Chiesa nei Paesi dell'America Latina di adottare uno o due seminaristi per Diocesi per poter garantire la formazione di nuovi sacerdoti.

Il seminario di Haiti, con circa 250 seminaristi, è stato distrutto. E' stata verificata la morte di 30 seminaristi (religiosi e diocesani), ma molti altri sono per ora abbandonati alla propria sorte.

“Dovremmo pensare al modo in cui poter organizzare una specie di fratellanza con cui si possa aiutare a ricostruire templi e seminari”, ha considerato il Cardinale. “Non sappiamo quanti seminaristi siano vivi, ma forse non potranno rimanere lì. Penso di presentare delle proposte ai Vescovi dell'America Latina e credo che questa possa essere una soluzione. Il futuro per la carità e le iniziative è amplissimo, ma credo che sia anche un momento speciale per poter mostrare cosa significa la fratellanza tra i popoli”, ha concluso.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


"Operazione Peter Pan", un progetto per salvare gli orfani di Haiti
Sarà guidato dall'Arcidiocesi di Miami

di Carmen Elena Villa

MIAMI, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Dopo il devastante terremoto avvenuto ad Haiti il 12 gennaio scorso, migliaia di bambini vagano da soli per le vie di Port-au-Prince senza una meta né un adulto che si occupi di loro.

Per questo motivo, l'Arcidiocesi di Miami sta organizzando una campagna per aiutare queste piccole vittime. Si tratta dell'operazione “Peter Pan”, che cerca di trasferire negli Stati Uniti con visti umanitari i bambini haitiani una volta che si sia verificato che sono rimasti orfani a causa del terremoto.

Si vuole anche aiutare i bambini rimasti feriti, fornire loro un'adeguata assistenza medica e far sì che possano riunirsi presto alle loro famiglie. L'approvazione finale del progetto dipende ora dall'Amministrazione di Barack Obama.

La stessa operazione si è realizzata a Cuba

L'operazione “Peter Pan” consiste in un movimento simile a quello realizzato dalla stessa Arcidiocesi tra il 1960 e il 1962, quando dopo il trionfo della Rivoluzione di Cuba Miami ricevette circa 14.000 bambini provenienti dall'isola.

La cubana Eloísa Echazábal è stata una delle beneficiarie di questo progetto. E' arrivata a Miami quando aveva 13 anni. “La bontà degli estranei è ciò che ti aiuta ad andare avanti”, ha detto al quotidiano New Herald di Miami. “Lo sappiamo bene, e noi possiamo essere degli estranei per questi poveri bambini, che sono come eravamo noi molto tempo fa”.

Dal canto suo, il direttore delle “Carità cattoliche” Richard Turcotte ha affermato che l'idea di ripetere l'operazione “Peter Pan” è nata vedendo le immagini di una bambina morta nel terremoto. “Quando abbiamo visto quella foto abbiamo capito che la nostra vita non era più nostra”, ha dichiarato. “Sappiamo che dobbiamo servire i nostri fratelli e le nostre sorelle ad Haiti”.

Turcotte ha segnalato in alcune dichiarazioni alla stampa che “la reazione è stata schiacciante”, e che da quando è stato reso noto il progetto i telefoni dell'Arcidiocesi “non hanno smesso di squillare”, soprattutto da parte dei cubani che 50 anni fa arrivarono negli Stati Uniti.

Per questa ragione, l'Arcidiocesi vuole istituire un ufficio che si incarichi esclusivamente di rispondere alle chiamate e ai messaggi di posta elettronica delle persone interessate a partecipare a questa iniziativa.

Secondo Turcotte, vari legislatori federali e statali, così come molti cittadini statunitensi, hanno offerto la propria casa per ospitare o adottare i bambini di Haiti, che all'inizio sarebbero alloggiati in sistemazioni temporanee.

“Per l'enormità di quanto è successo ad Haiti, è una priorità portare questi bambini orfani negli Stati Uniti”, ha detto Randolph McGrorty, direttore esecutivo dei Servizi Legali Cattolici (CLS) durante una conferenza stampa nella quale è stato reso noto il progetto.

Il Governo statunitense ha inoltre annunciato questo mercoledì la sospensione di tutti i rimpatri ad Haiti di immigrati illegali del Paese.


[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


L'opposizione della Chiesa alle unioni omosessuali non viola la laicità
Dichiarazione della Conferenza Episcopale Messicana

CITTA' DEL MESSICO, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa non viola la laicità quando si oppone alle unioni omosessuali, spiegano i Vescovi del Messico; piuttosto, offre il proprio contributo a uno Stato laico e democratico.

La spiegazione è stata formulata questo martedì durante una conferenza stampa e in un comunicato ufficiale della Conferenza dell'Episcopato Messicano (CEM), il cui presidente è monsignor Carlos Aguiar Retes, Arcivescovo di Tlanepantla.

Un mese fa, nel Distretto Federale sono stati approvati il cosiddetto "matrimonio" tra omosessuali e l'adozione di minori da parte di persone dello stesso sesso, misura che i rappresentanti della Chiesa cattolica hanno definito contraria alla morale e ai diritti dei bambini.

I promotori di questa misura hanno accusato la Chiesa cattolica di ingerirsi nella vita delle istituzioni politiche e di violare la laicità dello Stato.

In questo contesto, avverte il comunicato della Conferenza Episcopale, “il magistero della Chiesa ha l'intenzione di offrire il proprio contributo alla formazione della coscienza, non solo dei credenti, ma di coloro che cercano la verità e vogliono ascoltare argomentazioni che provengono dalla fede e dalla ragione”.

“La fede – sottolinea il testo dei Vescovi messicani – non è un ostacolo alla libertà e alla scienza, né un insieme di pregiudizi che viziano la comprensione oggettiva della realtà. Di fronte all'atteggiamento che tende a sostituire la verità con consensi fragili e facili da manipolare, la fede cristiana apporta un contributo nella verità etico-filosofica e propone prospettive morali in cui la ragione umana può ricercare e trovare soluzioni possibili”.

I presuli sono convinti “che in ogni essere umano esista una legge morale naturale, e questa dà il benvenuto anche a quanti non si identificano con la fede e il pensiero cristiani. Per questo la Chiesa non impone le sue leggi morali”, si legge nel comunicato.

Nella conferenza stampa successiva alla lettura del testo, monsignor Aguiar Retes, che era accompagnato dagli Arcivescovi di Morelia, monsignor Alberto Suárez Inda, e di León, monsignor José Guadalupe Martín Rábago, ha segnalato che “la Chiesa cattolica non viola lo Stato laico né vuole farlo, né demonizza l'omosessualità o è omofobica. La Chiesa vuole uno Stato laico che garantisca le condizioni di libertà per tutti, indipendentemente dalle caratteristiche di ogni persona”.

“Non si tratta del fatto che lo Stato laico si contrapponga alle condizioni religiose o alle istituzioni come le Chiese. Il vero Stato laico è quello che favorisce la relazione di tutti i settori, anche quelli costituiti per motivi di una fede in cui si solidarizza e si fraternizza per il bene di una società”.

“La Chiesa – ha affermato il presidente della CEM – non viola lo Stato laico, ma è a favore di uno Stato democratico, che abbia una solidità e una laicità come espresso da Benedetto XVI”.

Dal canto suo, l'Arcivescovo di León ha difeso il diritto della Chiesa di esprimersi sulle proprie convinzioni.

“La posizione della Chiesa nel Catechismo sugli omosessuali segnala che questi hanno i diritti propri di ogni persona umana e non sono esclusi dalla Chiesa o scomunicati”, ha sottolineato.



Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Canada: "Ospitalità radicale" nei Giochi invernali di Vancouver
La Chiesa promuove iniziative per atleti, turisti e operatori

di Nieves San Martín

VANCOUVER, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa di Vancouver (Canada) si mobilita per i Giochi Olimpici Invernali offrendo la propria accoglienza e iniziative rivolte ai partecipanti. Il 12 febbraio verrà inaugurata in quella città la XXI edizione dell'appuntamento sportivo mondiale.

“Ospitalità radicale” è il motto che l'Arcivescovo di Vancouver, monsignor Michael Miller csb, ha coniato per sottolineare l'atteggiamento che la comunità cristiana deve assumere nei confronti di tutti coloro che si recheranno nella città.

“L'Arcidiocesi di Vancouver – scrive monsignor Miller in una lettera di benvenuto – ha scelto di vivere questo periodo sotto il segno dell'ospitalità radicale”. “Vogliamo trovare il modo di mostrare la presenza visibile di Gesù tra di noi durante i Giochi”.

Nella lettera, il presule invita tutti a partecipare alla celebrazione del Mercoledì delle Ceneri e ricorda che durante la manifestazione sportiva ci saranno due luoghi di accoglienza e di preghiera: uno davanti allo stadio e un altro nella Cattedrale.

Tutte le parrocchie verranno coinvolte nell'organizzazione di incontri, congressi e iniziative di preghiera interconfessionale.

L'Arcidiocesi ha anche deciso di inserirsi nella rete delle confessioni cristiane “More than gold”, per parlare a tutti con una sola voce.

“Le Olimpiadi devono diventare un'occasione positiva per mandare dei messaggi e non dimenticare i problemi sociali del nostro tempo e di questa parte del mondo”, ha dichiarato ad “Avvenire” Paul Schratz, direttore di BC-Catholic, il settimanale dell'Arcidiocesi di Vancouver.

Dan Hahan, direttore dell'Ufficio Giustizia e Pace diocesano, sottolinea l'importanza di sensibilizzare gli atleti, i turisti e le delegazioni “sui problemi dei senzatetto e del traffico di esseri umani”.

“Vogliamo trasformarci nel volto di Dio per i visitatori – afferma –. La Chiesa di Vancouver ha esortato le famiglie cattoliche ad essere disponibili a ospitare i volontari che giungeranno in città e ad affittare a prezzi bassi gli appartamenti e le stanze, andando controcorrente rispetto a ciò che accade attualmente a causa di privati e imprese senza scrupoli”.

L'Arcivescovo ha scritto questa lettera di benvenuto agli atleti e ai partecipanti ai Giochi Olimpici Invernali già il 30 novembre 2009.

“Vancouver si prepara per il vostro arrivo da molti anni! - dichiara -. Oltre ad aver inaugurato molti splendidi edifici e ad aver migliorato notevolmente strade e traffico, abbiamo fatto volontariato per trasformare questo evento in un successo”.

“Durante il vostro soggiorno qui, speriamo che penserete di visitare uno dei centri arcidiocesani predisposti per gli atleti nel centro della città. Uno è nella Cattedrale del Santo Rosario, un altro nel nostro ufficio al numero 150 di Robson Street. Speriamo che riterrete questi luoghi dei 'santuari' (…) e che troverete un linguaggio comune nell'amore per Gesù Cristo”.

Dopo aver invitato gli sportivi alla celebrazione per l'inizio della Quaresima, indica loro che potranno trovare gli orari delle Messe sul sito dell'Arcidiocesi, www.rcav.org.

Augura infine a tutti “una competizione soddisfacente e gratificante durante le Olimpiadi del 2010, e che molti di voi sperimentino l''ospitalità radicale' degli abitanti di Vancouver”.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]



Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Italia


Jovanotti: il successo? Lavorare con gioia e vederne i riflessi negli altri

di Silvia Gattas

ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La sfida è quella di parlare di successo, di creatività, di confronto, di vita. Non sono né un palasport né un teatro a fare da sfondo alla scena. Non sono le note, la chitarra, o il rap a fare da contorno. È un Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, che si mette a nudo davanti a decine e decine di studenti universitari, raccolti nella Cripta della Cappella della Sapienza di Roma. Luogo insolito, aperto eccezionalmente per un incontro che assomiglia tutto a un viaggio nella vita e nell’esperienza del cantante toscano.

Parla subito di “sfida”, perché “parlare di successo, per me, è una cosa scandalosa, è come per una ragazza bella parlare di bellezza. Sono 25 anni che faccio dischi e ho avuto sempre successo, più o meno grande. Fa parte della mia vita”.

Ammette: “Mi piacerebbe potervi dire che il successo è una  cosa brutta, che non dà la felicità. Ma non è così. In realtà – dice l’artista - il successo è una droga, è una cosa che ti fa andare forte. Io non mi drogo, non mi sono mai drogato, ma ho sempre avuto attrazione per il successo-droga, ho avuto sempre una certa dipendenza. A me interessa il successo come sfida, come conquista da mettere alle spalle e da dimenticare. E da ritrovare ogni volta, giorno dopo giorno”.

L’autore di “Bella” e di “E’ per te” racconta cosa rappresenta e ha significato nella sua storia il successo, “una parola bastardissima”. “Io sono il terzo di quattro figli – dice - mi è sempre piaciuto vivere il mondo come una scena di uno spettacolo, è sempre stata una cosa che ho sentito subito forte”.

“Fin da piccolo ho dovuto imparare a conquistarmi le cose, dal cibo, agli spazi, all’attenzione dei miei genitori, alle simpatie – continua –. E ho sviluppato tecniche psicologiche-mentali che mi sono poi servite nel sociale, sul lavoro. Ho dovuto conquistarmi anche le attenzioni dei genitori. Ma non lo vivevo come un peso, era la meravigliosa realtà”.

“Ero un piccolo cercatore di successo – prosegue - un po’ come un piccolo cercatore d’oro. Per me il successo era una benedizione, era far sorridere la mia mamma. Per me era energia”.

La Cripta della Cappella universitaria è stracolma. Gli studenti seguono con attenzione i discorsi del cantante, “interrogato” dal padre gesuita Antonio Spadaro. I temi che si toccano sono tanti, sono profondi, entrano dentro e scavano a fondo. Jovanotti ci mette il suo pizzico di ironia; qualche battuta qua e là, senza tuttavia mai far perdere la qualità della conversazione.

L’insuccesso? “Non lo so definire, ma so cos’è – risponde Lorenzo - perché l’insuccesso è la stessa cosa del successo, sono due fratelli, e spesso la percezione del successo è qualcosa di relativo, perché a volte si percepisce un successo che poi non lo è, oppure si pensa a un insuccesso che poi diventa successo”.

Ed eccoci arrivare al centro del dibattito: la creatività e il suo legame con una vita di successo. “La creatività è un totem contemporaneo – dice il cantante toscano - anche se non esiste perché tutto è già stato creato. Dio ha creato già tutto. Esiste invece l’invenzione, che è la potenza dell’individuo. Amo chi conosce le cose e il trasferimento della conoscenza vale più della conoscenza in sé”.

Jovanotti fa un passo ulteriore, per parlare di successo come “gioia” nel fare le cose, e soprattutto nel donarle, e ricevere quei sorrisi, quei “regali” dagli altri, che rappresentano lo scopo del successo, la forza per andare avanti giorno dopo giorno, per non essere “incatenato” a un successo fine a se stesso.

“Non ci sono cose più o meno riuscite. C’è la vita di ogni giorno – dice - lo sforzo continuo di rinnovarsi  ogni giorno e in questo tentativo non c’è sconfitta perché il tentativo vale per sé, il lavoro vale per sé: il risultato è un dettaglio. Io credo nella forza della gioia in una maniera quasi assoluta. Credo nella potenza della gioia, nel potere salvifico della gioia di essere vivi, e in questo ci ho fatto un mio piccolo credo”.

“Oso pensare – prosegue - che l’Aldilà non sia altro che questo: un comico che ti fa ridere, un artista che ti fa emozionare, una risposta dell’altro. Tutto questo ti fa provare cos’è l’Aldilà. Ho questo sospetto: che l’eternità sia gioia, estasi, fusione degli elementi”.

Ed ancora: “Il successo è vedere una risposta negli occhi degli altri. Vedere le loro reazioni… in quel momento ritorno bambino, a quando avevo 6 anni, e ho come la sensazione di tornare a casa e far sorridere la mia mamma”.

E poi, il consiglio finale, che sembra racchiudere a pennello il senso dell’intero incontro e arriva dritto al cuore del discorso: “Il successo è il lavoro, giorno dopo giorno senza mai arrendersi, ma soprattutto è riuscire a lavorare con gioia, come quando i bambini giocano con gioia”. Con la loro innocenza.

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Le ACLI invitano ad accogliere la popolazione nomade
In occasione dell'applicazione del Piano Nomadi del Comune di Roma

ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Dare dignità ai nomadi ed esortare i cittadini all'accoglienza sono i compiti che si propongono le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (ACLI) e l'Associazione Centro Astalli in occasione dell'applicazione del Piano Nomadi del Comune di Roma.

“Per attuare una modifica così epocale dobbiamo mettere in preventivo che ci saranno difficoltà”, ha affermato questo giovedì durante una diretta sulla “Radio Vaticana” (canale One-O-Five Live) Gianluigi De Palo, presidente delle ACLI di Roma, commentando l’avvio del Piano Nomadi con lo spostamento, operato questo martedì, di circa 50 persone dal Casilino 900 al Campo attrezzato di Salone.

“Non dobbiamo perdere di vista l’obiettivo comune di questo piano – deciso con la concertazione di tutte le associazioni sul territorio –, che è quello di non tollerare più situazioni come quella del Casilino 900, in cui le persone sono costrette a vivere in situazioni poco dignitose”, ricorda l'emittente pontificia.

Ospite della trasmissione è stato anche padre Giovanni La Manna, il gesuita che presiede l’Associazione Centro Astalli, anche lui come De Palo presente nel Tavolo di lavoro costituito dal Comune per coordinare il Piano Nomadi.

“Dopo 40 anni si è deciso di mettere fine a una situazione indecorosa per i Rom e per i cittadini romani”, ha dichiarato il sacerdote.

Pur riconoscendo che “un’operazione del genere è talmente delicata che non si può inseguire la perfezione”, ha sottolineato che non bisogna “perdere di vista l’obiettivo”: “nessuno deve essere penalizzato, ma sacrifici vanno fatti da entrambe le parti, sia dalla parte dei Rom che da quella degli amministratori della città”.

“L’importante è mantenere vivo il dialogo e il confronto con le istituzioni, che sono necessari per portare a termine l’operazione – ha aggiunto –. E’ fondamentale poi che gli stessi Rom restino protagonisti di questa collaborazione con le istituzioni”.

Secondo il presidente delle ACLI di Roma, “è tutta la città che deve collaborare a questo piano”, “a iniziare dai cittadini che non devono porre ostacoli all’accoglienza dei nomadi quando vengono sistemati in situazioni per loro più dignitose”.

“Al centro ci deve essere la persona e il bene comune”. “L’accoglienza non può essere confusa con la tolleranza di persone e bambini accampati sulle rive del Tevere”.

Accanto a questo, ha sottolineato, “bisogna regolarizzare la situazione di queste persone dando loro dei documenti che permettano loro di vivere regolarmente sul territorio, potendo accedere a tutti i servizi a cui possono accedere i cittadini italiani. E’ importante mantenere ciò che di positivo c’è già, cioè la possibilità per i bambini di frequentare la scuola”.

“L’avvio dello sgombero del Casilino 900 va guardato positivamente, perché è un piano che abbiamo condiviso e che abbiamo contribuito a rendere più effiace – ha concluso padre La Manna –. Va però monitorato, perché quando parte un progetto del genere è naturale che si presentino delle criticità che però vanno risolte dialogando insieme”.

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Interviste


San Paolo, maestro dello spirito tra Oriente e Occidente
Intervista al cardinale Tomáš Špidlík
ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una intervista al cardinale Tomáš Špidlík, apparsa sul numero di gennaio di Paulus, dedicato al tema "Paolo l'orante" e contenente un dossier centrale sulla Lettera a Tito.



* * *

La vita di Tomáš Špidlík è come un profondo respiro con i due polmoni della Chiesa, Oriente e Occidente. Nato in Moravia nel 1919, il giovane gesuita si formò tra occupazione nazista e avanzata sovietica. Nel 1951 fu chiamato a Roma da Radio Vaticana, fornendo un prezioso aiuto per i Paesi d’oltre cortina. Per 45 anni insegnerà Teologia spirituale patristica e orientale in varie università divenendo, tra l’altro, il primo titolare della cattedra di Teologia Orientale fondata al Pontificio Istituto Orientale e membro onorario della Società di Studi Bizantini di Pietroburgo. Ma all’attività di ricerca e di sistematizzazione teologica, padre Špidlík afiancò sempre un intenso “esercizio pratico”: per ben 38 anni è stato direttore spirituale del Pontificio Collegio Nepomuceno. Nel marzo 1995 viene chiamato a predicare gli esercizi spirituali alla Curia vaticana e l’anno successivo papa Giovanni Paolo II lo incarica di ripensare la sua cappella privata Redemptoris Mater, insufflando la tradizione iconografica orientale nel cuore di Roma. Oggi Špidlík, creato cardinale nell’ottobre del 2003, vive e lavora presso il Centro di Studi e Ricerche Ezio Aletti per lo studio della tradizione dell’oriente cristiano in relazione ai problemi del mondo contemporaneo.

Eminenza, esistono molte definizioni della preghiera, ma in che cosa consiste, secondo l’apostolo Paolo?

«La preghiera cristiana è come il respiro della nostra umanità divinizzata, non se ne possono dare che definizioni approssimative, prese dall’esperienza umana. Se ne trovano numerose nella tradizione. Tre sono tuttavia divenute famose: la domanda a Dio dei beni convenienti, l’elevazione della mente a Dio e il colloquio con Dio. La prima è propria a tutte le religioni; san Paolo, però, vi aggiunge una nota: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26). L’elevazione della mente è la definizione presa dai filosofi greci. I cristiani vi dovevano necessariamente aggiungere che il Dio, al quale ci rivolgiamo, è un Padre personale con cui entriamo in un dialogo fiducioso. Paolo, che si rivolgeva ai cristiani convertiti dall’ambiente greco, doveva quindi insistere fortemente che, per chiamare Dio Padre, bisogna essere “in Gesù Cristo” (Rm 8,1) e vivere nello Spirito Santo. Il Paraclito è lo Spirito di filiazione per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15). Ne possiamo concludere che Paolo si sentiva obbligato a sottolineare fortemente questo fondamento teologico, trinitario della preghiera».

Il suo “stile orante” è più vicino alla tradizione orientale o a quella occidentale?

«La preghiera si fa nello Spirito, per mezzo del Figlio, al Padre. Questo principio paolino è fermamente mantenuto sia in Oriente che in Occidente. Si può forse indicare una sfumatura nell’espressione verbale. Gli orientali non temono di dire che lo Spirito è tanto unito a noi da far parte della nostra personalità. Professano la tricotomia antropologica, indicando tre parti della composizione umana: il corpo, l’anima, lo Spirito Santo. Gli occidentali hanno temuto che questo si potesse male interpretare come un panteismo, perciò preferiscono affermare che abbiamo nell’anima la “grazia” che è il “dono” dello Spirito, non la Persona stessa. Ma la differenza è veramente solo verbale. Il dono dello Spirito è la sua azione e dove Egli agisce è presente. D’altra parte, è vero che le preghiere allo Spirito degli orientali sono molto belle proprio perché sono così personali».

All’inizio del libro degli Atti si specifica che il compito degli apostoli sarà duplice: «Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola» (At 6,4). Quasi a dire che l’apostolo non può essere tale, se non è uomo di preghiera...

«La scelta della propria vocazione deve essere molto seria e consapevole. Ma si considera da due punti di partenza diversi. Da parte nostra dobbiamo prima esistere, renderci conto delle nostre capacità e poi riflettere quale vocazione scegliere. Da parte di Dio, si agisce in modo inverso. L’uomo riceve prima la sua vocazione nel mondo e poi, per realizzarla, riceve l’esistenza. Paolo ne è sicuro. Si era convinto di essere stato chiamato a essere apostolo di Cristo già dal grembo della madre (cfr. Gal 1,13ss.) e non lo sapeva, perciò faceva il contrario. Ricevette però l’illuminazione da Cristo. È successo in modo straordinario sulla via in Damasco. Ma in seguito egli aspettava ulteriori illuminazioni nella preghiera assidua. Da queste illuminazioni ricevute nella preghiera si faceva guidare nei suoi viaggi. Si considera apostolo di Cristo, anche se non lo aveva conosciuto in modo visibile. Lo stesso atteggiamento vale per tutti i cristiani: pregando, ascoltando la voce di Dio, troveranno il loro giusto posto nel mondo».

Ecco allora che proprio Paolo – l’uomo di azione – prescrive più volte di pregare «incessantemente» (1Ts 5,17; Ef 6,18). Ma come vivere questa “preghiera perenne” nella quotidianità?

«I monaci d’oriente si sono sempre sforzati di seguire questo precetto. Il solo problema era come giungervi. Emersero tre soluzioni. I messaliani (“preganti”), una tendenza carismatica della Siria, volevano veramente concentrarsi sulla sola preghiera e rifiutavano ogni opera profana, lasciando lavorare soltanto gli “imperfetti”. Gli acemeti (“coloro che non dormono”), i monaci di un monastero di Costantinopoli, cercavano di giungere alla preghiera perpetua avvicendandosi tra di loro. Così, una parte della comunità era sempre in chiesa, mentre altri lavoravano o riposavano, poi si scambiavano il turno. La terza soluzione generalmente accettata è quella data da Origene: “Prega incessantemente colui che unisce la preghiera alle opere necessarie e le opere alla preghiera”. È il famoso Ora et labora del monachesimo benedettino».

L’invito alla preghiera incessante è all’origine della vicenda del Pellegrino russo...

«Per pregare bene si esige naturalmente una buona disposizione interiore, in particolare il sentimento della presenza di Dio, al quale ci rivolgiamo e per cui lavoriamo. Dobbiamo rendercene conto almeno all’inizio di ogni opera buona. Ma i contemplativi hanno sempre desiderato che sia un sentimento stabile. Esercitandosi, si arriva dai singoli “atti” di preghiera allo “stato” di orazione. Come raggiungerlo? Un metodo semplice consiste nella ripetizione frequente di qualche breve invocazione. In Oriente si raccomandava soprattutto la “preghiera di Gesù” (o piuttosto “a Gesù”): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Serve a eliminare i pensieri malvagi, cioè a purificare il cuore e a rafforzare il sentimento del pénthos, cioè il ringraziamento per il perdono dei peccati e delle nostre debolezze. Questa giaculatoria va ripetuta in ogni momento libero. Ma il famoso Pellegrino russo propagò un metodo più conseguente. La preghiera è un pensiero rivolto a Dio unito a un simbolo esterno. Questo simbolo non è necessariamente una parola. Unire il pensiero alla respirazione e al battito del cuore ci assicura che possiamo sentire che la preghiera e la vita sono inseparabili».

Paolo insiste sul “rendimento di grazie” in ogni Lettera, ringraziando il Signore soprattutto per la fede di coloro che hanno accolto il suo annuncio. Quale “spazio” occupa la lode nell’esperienza del cristiano?

«Il peccato capitale dei pagani, secondo Paolo, è “di non aver dato gloria né aver reso grazie” a Dio (cfr. Rm 1,26). In ogni orazione devono ritrovarsi quattro elementi: la domanda, la preghiera, la supplica, l’azione di grazie (cfr. 1Tm 2,1). Gli esegeti però sottolineano che la parola “grazie” non esiste in ebraico. Nella maniera semitica si ringrazia lodando e glorificando il donatore, benedicendolo. Perciò conosciamo, nelle liturgie orientali, molte litanie, che cominciano in tale modo: “Benedetto sia (letteralmente: sia detto bene, parlato bene...) il Signore...”, perché ci ha fatto tale o tale bene. E concludono: “perché tuo è il regno, la potenza, la gloria”».

Anche circa la “preghiera di domanda” Paolo è molto insistente con le sue comunità, convinto che la preghiera apra le strade all’evangelizzazione (Col 4,3; Rm 1,10; 15,30...).

«Mettendosi in contatto con la divinità, gli uomini spontaneamente formulano le loro domande, chiedono qualche cosa. Possono essere esauditi? Non sarebbe contrario al giusto ordine che il Dio assoluto e onnipotente pieghi la sua volontà secondo il desiderio dell’uomo? Di questo parere erano, infatti, i filosofi ellenistici. E anche a san Paolo viene un dubbio, “perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26). Però aggiunge subito dopo: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (ibid.). Questo, secondo Origene, si realizza nel modo seguente: noi preghiamo, ma lo Spirito “interviene”; la sua voce è più forte della nostra e così, pur desiderando le cose piccole, chiediamo anche le grandi cose che sono volute da Dio. Tale è evidentemente la salvezza del mondo. Ogni preghiera possiede quindi un aspetto missionario, che può divenire talvolta pienamente consapevole. Perciò ci ammonisce Origene: “Quando preghi, domanda le cose grandi!”. L’altezza dei beni domandati mostra l’idea che si ha della grandezza di Dio».

Paolo testimonia anche alcuni carismi che si manifestano nella preghiera comunitaria. Invita tutti a elevare inni e canti. Cosa insegna al nostro pregare insieme?

«Lo Spirito Santo è uno in molti, può essere quindi considerato “anima della Chiesa”. La preghiera nello Spirito, anche se è pronunciata individualmente, ha un carattere ecclesiale, è quindi essenzialmente comunitaria. Un santo russo, Giovanni di Kronštadt scrive: “Le letture, gli inni, le preghiere e le suppliche che facciamo nella chiesa sono la voce delle nostre anime..., sono la voce dell’umanità intera...; queste preghiere e questi inni sono meravigliosamente belli, rappresentano il respiro dello Spirito Santo”. Gli autori orientali recenti amano sottolineare l’aspetto “dossologico” della liturgia, dove si manifesta “il Signore della gloria” (1Cor 2,8)».

Paolo è il teologo della cristificazione (Gal 2,20): possiamo dire che è alla base della spiritualità della divinizzazione, tanto cara ai Padri?

«Infatti, i Padri orientali preferiscono parlare della vita cristiana come vita in Cristo (cfr. l’omonima opera di Cabasilas) più che della vita secondo Cristo (cfr. il libro L’imitazione di Cristo). In Paolo troviamo entrambe le espressioni, ma la prima è più fortemente sottolineata: “Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio: ai santi che sono in Efeso... Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelto prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere figli adottivi per opera di Gesù Cristo... per realizzarlo nella pienezza dei tempi; il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (cfr. Ef 1,1-10). Questa riconciliazione in Cristo del cielo e della terra è un modo di esistenza. Divinizzazione è il termine con cui i Padri rendono il vivere in Cristo di Paolo».

Paolo Pegoraro

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Parola e vita


La Parola è Vita in azione
III domenica del Tempo Ordinario, 24 gennaio 2010
di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).-“Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.

Venne a Nazaret, dove era cresciuto e, secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:

“Lo Spirito del Signore è sopra di me;

per questo mi ha consacrato con l’unzione

e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,

a proclamare ai prigionieri la liberazione

e ai ciechi la vista;

a rimettere in libertà gli oppressi,

a proclamare l’anno di grazia del Signore”.

Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 1,1-4; 4,14-21).

Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse allo scriba Esdra di portare il libro della legge di Mosè che il Signore aveva dato a Israele.(…) Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo perché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: “Amen, amen”, alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. I leviti leggevano il libro a brani distinti e spiegavano il senso e così facevano comprendere la lettura. Neemia,..Esdra,..e i leviti dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.”(Ne 8,1-10).

Come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati, mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito” (1 Cor 12,12-13).

La Parola di Dio possiede una vitalità propria che si può paragonare al dinamismo prodigioso del corpo del concepito nel grembo, con l’infinita differenza che non si tratta del dinamismo di una vita biologica, ma di quello della Vita di Dio, che ha il potere di creare e sviluppare nell’uomo una “novità di vita” (Rm 6,4; 1Pt 1,23).

Infatti la vitalità della Parola è Dio-in-azione: “Sorgente che zampilla” (Gv 4,14), “Spirito e vita” (Gv 6,63), e il suo effetto è irresistibile, comanda perfino alla morte: “Lazzaro, vieni fuori!” (Gv 11,43). La Parola è comunione con il Signore, è tu per tu di amicizia con Gesù: è “Io-ci-sono” (Es 3,14); è “Sono-io-che-parlo-con-te” (Gv 4,26).

Benedetto XVI ha definito perfettamente la Parola con queste folgoranti parole: “La parola di Dio è Cristo in persona” (Recita dell’Angelus, 26 ottobre, 2008).

Comprendiamo bene, perciò, che la Sacra Scrittura non ci è stata data come un codice morale da cui imparare solo ad essere buoni e pazienti per meritarci il Paradiso: essa è il dono della persona di Gesù, il suo vivo Corpo che nutre ed edifica la Chiesa, suo mistico Corpo (1 Cor 12,12-30).

E’ ancora Benedetto XVI ad affermare che se il credente fa suo l’atteggiamento fecondo di Maria (la quale medita nel suo cuore tutte le cose alla luce della Parola accolta nella fede), anch’egli “concepisce” la Parola in se stesso, sperimentandola per quello che è e per quello che fa: Presenza viva, tenerissima, amorosissima e trasformante, come il corpo del bambino che trasforma la madre: “La Scrittura cresce con chi la legge. Solo alla luce delle diverse realtà della nostra vita, solo nel confronto con la realtà di ogni giorno, si scoprono le potenzialità, le ricchezze nascoste della Parola di Dio. Vediamo che nel confronto con la realtà si apre in modo nuovo anche il senso della Parola che ci è donata nelle Sacre Scritture. Così siamo realmente arricchiti. Nessuna meditazione, nessuna riflessione scientifica può da sé tirare fuori da questa parola di Dio tutti i tesori, tutte le potenzialità che si scoprono solo nella storia di ogni vita (Benedetto XVI, ai padri del Sinodo sulla “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, 25 ottobre 2008).

Una simile “incarnazione” della Parola altro non è che il prolungamento dell’incarnazione stessa del Verbo, come scrive Ruperto di Deutz con singolare realismo: “Per ogni volta che il Verbo di Dio è stato rivolto a qualche profeta o patriarca, altrettante volte Sion ha partorito il Verbo di Dio, non diverso da quelle che la beata Vergine concepì e partorì dandogli carne...La Scrittura – Legge e Profeti - è stata creata prima ancora che Dio raccogliesse nell’utero della Vergine la totalità della Scrittura, tutto il suo Verbo. Perciò è falso dire che prima di Maria Cristo non esisteva. Infatti, prima che ella partorisse la sua carne, Sion beata partorì, per bocca dei profeti, lo stesso e identico Cristo, lo stesso e identico Verbo” (“In Isaiam” 1.2, c.3). Tutto ciò è messo a fuoco da Paolo “ad personam”: “E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

In verità, l’ascolto della Parola stabilisce un rapporto tanto radicale e profondo tra Cristo e il credente da potersi paragonare al legame uterino, con la differenza che la Parola è a un tempo “madre” forte che nutre e protegge, e “bambino” debole ed indifeso che cresce nella fragilità della condizione umana. La contraddizione forza-debolezza è solo apparente se si pensa che, come la vita nel grembo, anche la Parola di Dio può essere accolta e rispettata come cosa sacra di valore assoluto (alla quale non è lecito aggiungere o togliere nemmeno una virgola - Ap 22,18-19), oppure trascurata, ignorata, negata e manipolata secondo l’arbitrio e la presunzione di chi se ne serve per affermare se stesso, vanificandone così la vitalità e la fecondità. Solo in umiltà e amore è dato intendere, concepire e far crescere e fruttificare la Parola di un Dio che è Umiltà e Amore.

Al riguardo, è stato detto dai Padri che la Bibbia è una lettera d’amore che Dio ha scritto alla Chiesa sua Sposa, (aggiungo) “come a un solo uomo”. In verità è molto più di una lettera: è un vero e proprio incontro d’amore, tra Colui che parla e colui che legge-ascolta, incontro tanto profondo e fecondo da generare, nel tempo, una creatura nuova, trasfigurata e trasformata.

Cosa significa, infatti, che la Parola “penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12)? Significa che essa, mentre scende lungo le radici dell’essere come “acqua viva”, purifica il sentire umano trasformandolo nel sentire di Cristo (Fil 2,5).

Veramente la Scrittura è “la porta delle Acque” (Ne 8,1), dalla quale fluisce in chi ascolta l’acqua viva dello Spirito che l’ha scritta ed è rimasto in ogni sua Parola: “E’ lo Spirito che da’ la vita, la carne non giova a nulla;le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita” (Gv 6,63). Spiega splendidamente Origene che il Verbo di Dio “è coperto dal velo della lettera come è coperto dal velo della carne” (Hom. In Lev. 1,1). Alla luce del mistero dell’Annunciazione del Signore vorrei specificare (con Gv 1,14 e Lc 1,31) che è il velo della carne di un bambino, e non solamente il bambino appena nato, ma il bambino che comincia ad esserci nel momento del concepimento: un velo incredibilmente sottile, che proprio per questo lascia trasparire tutta la gloria del Creatore.

L’apostolo Pietro sembra sottintendere questo riferimento al grembo quando paragona la Parola al latte materno, e scrive: “Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore” (1 Pt 2,2-3).

Ed ecco, in conclusione, il modello e la testimonianza di san Domenico, fondatore dell’Ordine dei Predicatori della Parola, un innamorato che beveva con tanta avidità alla fonte della Scrittura da passare notti quasi insonni davanti alla “porta delle Acque”, per impararla a memoria: “Domenico si sedeva tranquillamente e, dopo essersi fatto il segno della croce, cominciava a leggere; mentre leggeva si chinava spesso a baciare il suo libro. Dall’atteggiamento sembrava in compagnia di qualcuno, come se discutesse con un compagno non riusciva a trattenere le parole, poi sembrava ascoltare in silenzio. A tratti si animava alternando il sorriso alle lacrime, alzava lo sguardo e lo abbassava, parlava di nuovo sottovoce e si batteva il petto. Poi, in atto di ringraziare un personaggio importante per il bene ricevuto, si alzava e chinava il capo. Così pregava passando dalla lettura all’orazione, dall’orazione alla meditazione, dalla meditazione alla contemplazione” (P. Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, 1998, p.350).

Per essere efficaci testimoni e servitori della Vita dobbiamo essere i primi a nutrirci di questo “latte”. Allora avremo la forza stessa dello Spirito di Cristo per portare al mondo il lieto annuncio del valore immenso della vita: e saranno liberati i prigionieri della cultura della morte, e sarà restituita la vista ai ciechi che non riconoscono l’uomo nel concepito, e saranno rimessi in libertà di vivere tutti i bimbi nel grembo già condannati a morte dai loro genitori.

----------

* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su


Documenti


Paolo "cosmopolita"

ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del prof. Paolo Ricca, della Facoltà Teologica Valdese di Roma, contenuto nel “Codex Pauli”, un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell’Anno Paolino.



* * *

Paolo cosmopolita, cioè «cittadino del mondo»? Proprio lui che scriveva ai cristiani di Filippi: «La nostra cittadinanza [altri traduce: «la nostra patria»] è nei cieli, da dove aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil 3,20) – proprio lui avrebbe dovuto sentirsi e considerarsi «cittadino del mondo», di questo mondo che passa (1Cor 7,31), riconoscendo tutto il mondo come la sua patria? Paolo cosmopolita? Poteva esserlo davvero quel Saulo/Paolo che descriveva se stesso così: «Io, circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge...» – poteva davvero questo ebreo purosangue, questo fariseo di stretta osservanza, così consapevole di sé e del suo rango all’interno del popolo eletto, essere al tempo stesso cosmopolita, cioè appartenere a più culture e farsi di volta in volta, oltre che ebreo con gli ebrei, anche greco con i greci e romano con i romani? Sì, per quanto strano possa sembrare, poteva esserlo e lo è stato. Lo è stato in due sensi: per formazione e per vocazione.

Cosmopolita per formazione

Già la città in cui nacque e crebbe, Tarso in Cilicia, lo predisponeva in tal senso. Crocevia commerciale di prima grandezza, importante centro politico (sede del governatore romano da quando, nel 66 a.C., la Cilicia divenne provincia dell’impero), città con antiche e nobili tradizioni culturali (erano conosciute le sue scuole di filosofia stoica), Tarso riuniva in sé ellenismo e romanità, e l’ebreo Paolo familiarizzò con entrambe fin dall’infanzia, integrandole nella sua robusta formazione teologica farisaica. In Paolo dunque coesistono tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Paolo è un ebreo della Diaspora, e il suo ebraismo è abbastanza diverso, su più questioni, da quello palestinese. Era un ebraismo che parlava greco ed era aperto al mondo circostante, disposto all’ascolto e al dialogo, in particolare con certe correnti filosofiche e religiose, con le quali non mancarono contaminazioni di varia natura. Paolo era figlio di questo ebraismo. Anch’egli era poliglotta fin da bambino, e ogni poliglotta appartiene a diverse culture: il greco sembra essergli stato così familiare da diventare quasi una seconda lingua materna, accanto all’aramaico.

Ma con la lingua è la cultura greca che lo ha fortemente segnato. Tutte le sue lettere sono scritte in greco (compresa quella «ai Romani»!), e quando cita (per lo più a memoria) la Torah, come spesso accade, non la cita dal testo ebraico, ma da quello greco della traduzione dei Settanta, che evidentemente è quella sulla quale si è formato religiosamente. Leggendo le sue lettere sono molti gli indizi che rivelano quanto Paolo abbia assimilato elementi della cultura ellenistica, come ad esempio1 le regole dello stile epistolare, modelli di retorica forense (1Cor 1-4), immagini prese a prestito dal mondo sportivo greco (1Cor 9,24-27), conoscenza del linguaggio delle religioni di mistero (Rm 6,1-14), vari echi della morale stoica (Fil 4,8), idee come quella della Chiesa «corpo di Cristo» inspiegabile senza il ricorso alla filosofia greca (1Cor 12,12-26), dalla quale peraltro Paolo sa anche prendere polemicamente le distanze (1Cor 1,17-25).

Per quanto infine concerne la cultura romana, si deve pensare anzitutto alla rivendicazione da parte di Paolo (così come lo descrive Luca) della sua identità di cittadino romano (At 22,25-29), della quale non c’è ragione di dubitare, anche se Paolo stesso non ne parla mai nelle sue lettere. C’è poi il passo fondamentale di Romani 13,1-7 che, comunque lo si interpreti, dà un giudizio nettamente positivo sulla funzione delle autorità costituite, che concretamente erano quelle dell’impero romano. Paolo le chiama «diaconi di Dio» (v. 4) e «ministri di Dio» (v. 6). Sembra che nel momento in cui scrisse la Lettera ai Romani egli giudicasse favorevolmente la pax romana, in quanto utile all’annuncio e alla diffusione dell’Evangelo. Il fatto poi che Paolo si sia appellato a Cesare (At 25,11) rivela la sua fiducia, non necessariamente ingenua, nel sistema giudiziario romano. Insomma: Roma non è una nemica e offre all’Apostolo un quadro politico-amministrativo nel quale egli si sente e si muove a suo agio. In questo senso, il suo cosmopolitismo combacia sostanzialmente con l’oikoumene romana (Lc 2,1).

Cosmopolita per vocazione

La radice profonda del cosmopolitismo di Paolo ha però a che fare, oltre che con la sua formazione, con la sua vocazione a evangelizzare i popoli pagani. Dio, scrive Paolo, «si compiacque di rivelare in me il suo Figlio perché lo annunciassi fra i pagani» (Gal 1,16). E questo fu fin dall’inizio l’accordo con gli altri apostoli riuniti a Gerusalemme: Paolo sarebbe stato missionario fra i pagani, e gli altri fra gli ebrei (Gal 2,7-9). E così è stato. Ma essere apostolo dei pagani significava esserlo del mondo intero, ed è così che Paolo ha inteso e vissuto il suo ministero. Questo spiega perché è stato perennemente in viaggio e perché s’è fermato così poco nelle comunità da lui fondate: doveva andare oltre, perciò le ha curate, sì, ma a distanza, mediante le sue lettere. Nel breve arco di tempo prima del ritorno del Signore, doveva far conoscere il suo nome «fino alle estremità della terra» (At 1,8), portando l’Evangelo «là dove Cristo non fosse già stato nominato» (Romani 15,20). Il cosmopolitismo di Paolo è dunque «l’orizzonte mondiale» della sua missione2. C’è un versetto che illustra perfettamente questo orizzonte: «... a motivo della grazia che mi è stata fatta da Dio, di essere ministro di Gesù Cristo presso i pagani, esercitando il sacro servizio dell’Evangelo di Dio, affinché i pagani divengano un’offerta che, santificata dallo Spirito Santo, sia gradita a Dio» (Rm 15,16). Paolo utilizza qui un linguaggio cultuale e si paragona a un sacerdote dell’Antico Patto, ma per un servizio completamente diverso: il servizio sacerdotale ora non consiste più nel sacrificio di una vittima, ma nella predicazione dell’Evangelo, e l’offerta a Dio non è più quella di uno o più animali, ma è l’offerta dei popoli pagani convertiti a Cristo e santificati dallo Spirito. Proprio perché tutti i popoli vengano a conoscenza della loro salvezza in Cristo, Paolo, com’è noto, progettava di recarsi, dopo Roma, in Spagna (Rm 15,23.28), spingendosi così fino all’estremo confine occidentale del mondo allora conosciuto.

Ma il cosmopolitismo missionario di Paolo, a sua volta, affonda le sue radici in quello che possiamo chiamare il cosmopolitismo di Dio, descritto così bene dall’Apostolo stesso: «Dio ha rinchiuso tutti [ebrei e pagani] nella disubbidienza, per far misericordia a tutti» (Rm 11,32). Il cosmopolitismo missionario di Paolo, concludendo, non è altro che il cosmopolitismo della grazia.

Prof. Paolo Ricca

Facoltà Teologica Valdese di Roma.

Invia ad un amico | stampa questo articolo | commenta questo articolo

torna su



Nessun commento:

Related Posts with Thumbnails