sabato 23 gennaio 2010

ZI100123

ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 23 gennaio 2010

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Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2010
"Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola"
CITTA' DEL VATICANO, sabato, 23 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il messaggio di Benedetto XVI per la 44a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (16 maggio 2010) che ha come tema "Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola".




* * *

Cari fratelli e sorelle,

il tema della prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali - "Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola" -, si inserisce felicemente nel cammino dell'Anno sacerdotale, e pone in primo piano la riflessione su un ambito pastorale vasto e delicato come quello della comunicazione e del mondo digitale, nel quale vengono offerte al Sacerdote nuove possibilità di esercitare il proprio servizio alla Parola e della Parola. I moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari, attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio ed instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio, ma la loro recente e pervasiva diffusione e il loro notevole influsso ne rendono sempre più importante ed utile l'uso nel ministero sacerdotale.

Compito primario del Sacerdote è quello di annunciare Cristo, la Parola di Dio fatta carne, e comunicare la multiforme grazia divina apportatrice di salvezza mediante i Sacramenti. Convocata dalla Parola, la Chiesa si pone come segno e strumento della comunione che Dio realizza con l'uomo e che ogni Sacerdote è chiamato a edificare in Lui e con Lui. Sta qui l'altissima dignità e bellezza della missione sacerdotale, in cui viene ad attuarsi in maniera privilegiata quanto afferma l'apostolo Paolo: "Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso ... Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?" (Rm 10,11.13-15).

Per dare risposte adeguate a queste domande all'interno dei grandi cambiamenti culturali, particolarmente avvertiti nel mondo giovanile, le vie di comunicazione aperte dalle conquiste tecnologiche sono ormai uno strumento indispensabile. Infatti, il mondo digitale, ponendo a disposizione mezzi che consentono una capacità di espressione pressoché illimitata, apre notevoli prospettive ed attualizzazioni all'esortazione paolina: "Guai a me se non annuncio il Vangelo!" (1 Cor 9,16). Con la loro diffusione, pertanto, la responsabilità dell'annuncio non solo aumenta, ma si fa più impellente e reclama un impegno più motivato ed efficace. Al riguardo, il Sacerdote viene a trovarsi come all'inizio di una "storia nuova", perché, quanto più le moderne tecnologie creeranno relazioni sempre più intense e il mondo digitale amplierà i suoi confini, tanto più egli sarà chiamato a occuparsene pastoralmente, moltiplicando il proprio impegno, per porre i media al servizio della Parola.

Tuttavia, la diffusa multimedialità e la variegata "tastiera di funzioni" della medesima comunicazione possono comportare il rischio di un'utilizzazione dettata principalmente dalla mera esigenza di rendersi presente, e di considerare erroneamente il web solo come uno spazio da occupare. Ai Presbiteri, invece, è richiesta la capacità di essere presenti nel mondo digitale nella costante fedeltà al messaggio evangelico, per esercitare il proprio ruolo di animatori di comunità che si esprimono ormai, sempre più spesso, attraverso le tante "voci" scaturite dal mondo digitale, ed annunciare il Vangelo avvalendosi, accanto agli strumenti tradizionali, dell'apporto di quella nuova generazione di audiovisivi (foto, video, animazioni, blog, siti web), che rappresentano inedite occasioni di dialogo e utili mezzi anche per l'evangelizzazione e la catechesi.

Attraverso i moderni mezzi di comunicazione, il Sacerdote potrà far conoscere la vita della Chiesa e aiutare gli uomini di oggi a scoprire il volto di Cristo, coniugando l'uso opportuno e competente di tali strumenti, acquisito anche nel periodo di formazione, con una solida preparazione teologica e una spiccata spiritualità sacerdotale, alimentata dal continuo colloquio con il Signore. Più che la mano dell'operatore dei media, il Presbitero nell'impatto con il mondo digitale deve far trasparire il suo cuore di consacrato, per dare un'anima non solo al proprio impegno pastorale, ma anche all'ininterrotto flusso comunicativo della "rete".

Anche nel mondo digitale deve emergere che l'attenzione amorevole di Dio in Cristo per noi non è una cosa del passato e neppure una teoria erudita, ma una realtà del tutto concreta e attuale. La pastorale nel mondo digitale, infatti, deve poter mostrare agli uomini del nostro tempo, e all'umanità smarrita di oggi, che "Dio è vicino; che in Cristo tutti ci apparteniamo a vicenda" (Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi: L'Osservatore Romano, 21-22 dicembre 2009, p. 6).

Chi meglio di un uomo di Dio può sviluppare e mettere in pratica, attraverso le proprie competenze nell'ambito dei nuovi mezzi digitali, una pastorale che renda vivo e attuale Dio nella realtà di oggi e presenti la sapienza religiosa del passato come ricchezza cui attingere per vivere degnamente l'oggi e costruire adeguatamente il futuro? Compito di chi, da consacrato, opera nei media è quello di spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano e l'attenzione alle persone e ai loro veri bisogni spirituali; offrendo agli uomini che vivono questo nostro tempo "digitale" i segni necessari per riconoscere il Signore; donando l'opportunità di educarsi all'attesa e alla speranza e di accostarsi alla Parola di Dio, che salva e favorisce lo sviluppo umano integrale. Questa potrà così prendere il largo tra gli innumerevoli crocevia creati dal fitto intreccio delle autostrade che solcano il cyberspazio e affermare il diritto di cittadinanza di Dio in ogni epoca, affinché, attraverso le nuove forme di comunicazione, Egli possa avanzare lungo le vie delle città e fermarsi davanti alle soglie delle case e dei cuori per dire ancora: "Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).

Nel Messaggio dello scorso anno ho incoraggiato i responsabili dei processi comunicativi a promuovere una cultura di rispetto per la dignità e il valore della persona umana. E' questa una delle strade nelle quali la Chiesa è chiamata ad esercitare una "diaconia della cultura" nell'odierno "continente digitale". Con il Vangelo nelle mani e nel cuore, occorre ribadire che è tempo anche di continuare a preparare cammini che conducono alla Parola di Dio, senza trascurare di dedicare un'attenzione particolare a chi si trova nella condizione di ricerca, anzi procurando di tenerla desta come primo passo dell'evangelizzazione. Una pastorale nel mondo digitale, infatti, è chiamata a tener conto anche di quanti non credono, sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche, dal momento che i nuovi mezzi consentono di entrare in contatto con credenti di ogni religione, con non credenti e persone di ogni cultura. Come il profeta Isaia arrivò a immaginare una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr Is 56,7), è forse possibile ipotizzare che il web possa fare spazio - come il "cortile dei gentili" del Tempio di Gerusalemme - anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto?

Lo sviluppo delle nuove tecnologie e, nella sua dimensione complessiva, tutto il mondo digitale rappresentano una grande risorsa per l'umanità nel suo insieme e per l'uomo nella singolarità del suo essere e uno stimolo per il confronto e il dialogo. Ma essi si pongono, altresì, come una grande opportunità per i credenti. Nessuna strada, infatti, può e deve essere preclusa a chi, nel nome del Cristo risorto, si impegna a farsi sempre più prossimo all'uomo. I nuovi media, pertanto, offrono innanzitutto ai Presbiteri prospettive sempre nuove e pastoralmente sconfinate, che li sollecitano a valorizzare la dimensione universale della Chiesa, per una comunione vasta e concreta; ad essere testimoni, nel mondo d'oggi, della vita sempre nuova, generata dall'ascolto del Vangelo di Gesù, il Figlio eterno venuto fra noi per salvarci. Non bisogna dimenticare, però, che la fecondità del ministero sacerdotale deriva innanzitutto dal Cristo incontrato e ascoltato nella preghiera; annunciato con la predicazione e la testimonianza della vita; conosciuto, amato e celebrato nei Sacramenti, soprattutto della Santissima Eucaristia e della Riconciliazione.

A voi, carissimi Sacerdoti, rinnovo l'invito a cogliere con saggezza le singolari opportunità offerte dalla moderna comunicazione. Il Signore vi renda annunciatori appassionati della buona novella anche nella nuova "agorà" posta in essere dagli attuali mezzi di comunicazione.

Con tali voti, invoco su di voi la protezione della Madre di Dio e del Santo Curato d'Ars e con affetto imparto a ciascuno la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 24 gennaio 2010, Festa di San Francesco di Sales.

BENEDICTUS PP. XVI





[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Il discorso della montagna e il dialogo ebraico-cristiano

ROMA, sabato, 23 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Membro della Commissione fra la Chiesa Cattolica e il Gran Rabbinato d'Israele, nel partecipare il 18 gennaio scorso, all'Auditorium di Roma, a un dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner.




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1. L'insegnamento di un Maestro ebreo? Il Mahatma Gandhi, padre dell'India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il "discorso della montagna", diceva che gli era andato dritto al cuore: "The Sermon on the Mount went straight to my heart...". E aggiungeva: "È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù". Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l'incontro col Profeta galileo e il suo messaggio. Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo.

L'esegeta protestante Joachim Jeremias riconduce a tre modelli fondamentali queste interpretazioni[1]. Il primo riflette una concezione perfezionistica: "Gesù dichiara ai suoi discepoli ciò ch'egli esige da loro" (67). Il discorso sarebbe "legge, non evangelo" (68). Gesù si presenterebbe né più né meno che come un maestro della Torah. Questa interpretazione non è però condivisibile, perché contrasta col fatto che nello stesso sermone "Gesù osa opporsi alla Torah" (70). Una seconda lettura è quella ispirata alla teoria dell'inattuabilità: è l'interpretazione dell'ortodossia luterana. Gesù "vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro inettitudine a compiere con le loro forze quanto Dio esige... (e così) indurli a disperare di sé" (72) per confidare in Dio solo. Il Nazareno, però, "s'attende che i suoi discepoli attuino ciò ch'egli chiede" (73), come è evidente nella parte finale del discorso stesso: "Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano" (Mt 7,13: cf. tutto il brano da 13 a 27). Anche questa interpretazione, allora, non può essere accolta. Infine, l'interpretazione dell'etica temporanea, propria degli "escatologisti conseguenti" di fine Ottocento (quali Johannes Weiss e Albert Schweitzer), legge nel discorso un insieme "di leggi d'eccezione, valide in epoca di crisi", nella forma di un "incitamento alla tensione estrema delle forze prima della catastrofe" (74). Il discorso della montagna, però, non sembra aver nulla di un'"etica dell'ultima ora": al contrario, "in Gesù l'accento essenziale non cade sull'affaticarsi degli uomini, ma sulla certezza che la salvezza di Dio è presente" (75s).

Caratteristica comune alle tre interpretazioni è quella di considerare il discorso come una sorta di legge, ponendo così "Gesù nell'ambito del tardo giudaismo" (76). Che questa operazione sia legittima e in parte feconda lo mostra la possibilità di rintracciare nelle parole del Profeta galileo numerose eco della tradizione ebraica: Paul Billerbeck - nel Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash[2]- ha potuto raccogliere in corrispondenza alle scarse cinque pagine del discorso della montagna ben trecento e nove pagine di analogie e paralleli rabbinici! Il rapporto con l'insegnamento dei maestri ebrei è dunque decisivo per comprendere e valutare l'insegnamento di Gesù sul monte: e tuttavia non è sufficiente. Perché? In che senso Gesù non è un Rabbi come gli altri? E in che senso, invece, si pone in continuità con la Torah di Mosè?

2. Gesù rompe con la Torah. A queste domande prova a dare risposta Jacob Neusner nel suo libro Un Rabbino parla con Gesù[3]: l'originalità di questo lavoro sta nel fatto che l'Autore si immagina contemporaneo del Maestro galileo e intavola con lui una discussione serrata. Nella prospettiva rabbinica questo è un atto di profondo rispetto e di forte tensione spirituale: "Una buona, argomentata discussione è considerata dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio, ossia un atto di grandissima devozione" (34). Peraltro, la fiducia nell'intelligenza è un tratto comune a ebraismo e cristianesimo: "Come i cristiani noi diamo importanza alla ragione e alla fede razionale... noi diamo valore all'uso dell'intelligenza, allo scambio di pensieri, di affermazioni, di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione un esercizio nell'uso di ciò che ci fa simili a Dio, cioè la nostra intelligenza" (41).

La tesi di Neusner è che "Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende di porsene al di sopra" (29). Intento dichiarato del Rabbino è perciò quello di "riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra e contro il Gesù di Matteo" (43). E questo in nome del principio espresso all'inizio del trattato della Mishnah (200 d.C.) chiamato Avot (detti dei Padri dell'ebraismo): "Fate una siepe intorno alla legge" (1,1). Secondo Neusner Gesù ha distrutto questa siepe, disponendo della Torah in maniera inaudita e perfino insegnando a violare alcuni dei Comandamenti: il terzo, che impone la santificazione del sabato, il quarto, quello dell'amore verso i genitori, e infine la prescrizione della santità. Gesù pretende di prendere il posto del sabato (cf. Mt 12,8: "Il Figlio dell'uomo è signore del sabato") e dei genitori (cf. Mt 10,37: "Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me'") e fa consistere la santità nella sequela di sé: in tal modo egli dissolve ciò che tiene unito Israele in quanto Israele, mettendo in pericolo l'essenziale della fede del popolo dell'alleanza.

A proposito, poi, di Matteo 5,38-39 ("Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l'altra") e 43-44. 48 ("Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano" e "Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste"), Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché "è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio... La Torah richiede sempre dall'Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l'uso legittimo della forza" (57). Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: "La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto... ma io vi dico' si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai" (61). Gesù parla "attraverso un ‘io', ma la Torah parla soltanto a ‘noi', a noi che formiamo Israele" (63). "Solo Dio può esigere da me quello cha sta chiedendo Gesù" (86). "L'alternativa è tra ‘Ricordati di santificare il sabato' e ‘Il Figlio dell'uomo è il signore del sabato'. Non possiamo scegliere entrambi" (105). "In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù" (107). Il nocciolo della questione è dunque questo: "Cristo prende il posto della Torah" (109). La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: "Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero" (112s). Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: "Il messaggio della Torah riguarda sempre l'Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono" (126).

3. Gesù radicalizza la Torah. Non così vede le cose un altro pensatore ebreo, Pinchas Lapide, che nel suo libro Il Discorso della Montagna. Utopia o Programma?[4] mette parimenti a confronto l'insegnamento di Gesù con la tradizione rabbinica: diversamente da Neusner, egli sottolinea che Gesù si colloca totalmente all'interno del pensiero ebraico, portandolo solo alle estreme conseguenze. Dunque, non la Torah, ma l'interpretazione che Neusner ne dà sarebbe in contrasto con quello che Gesù dice nel discorso della montagna. Per Lapide il Maestro galileo non chiede altro che "un'esistenza ebraica di fede... È un ideale realizzabile, un'utopia realistica che non deve rimanere sulla carta se l'ebreo credente trova il coraggio di superare se stesso... nell'instancabile imitazione di Dio che nell'ebraismo è considerata il più santo dei comandamenti. In questa grande spinta messianica verso l'incarnazione voluta da Dio di tutti i figli di Adamo e verso l'umanizzazione di questa terra... Gesù di Nazaret è stato ‘l'ebreo centrale', come lo definisce Martin Buber, colui che ci invita tutti a imitarlo" (15). La tesi di Lapide è pertanto che "il discorso della montagna non è altro che la spiegazione della Torah fatta da Gesù di Nazaret, che prendendo spunto dal duplice comandamento dell'amore ha come obiettivo la sua concretizzazione, allo scopo di favorire la manifestazione del regno di Dio sulla terra" (24). Nell'insegnamento sul monte siamo di fronte alla semplice "riscrittura escatologica di tutti i comandamenti dell'amore... che dalle tavole di pietra del Sinai verranno impressi nel cuore degli uomini" (36).

Se Neusner contrappone troppo, Lapide concilia altrettanto: la radicalità di Gesù rispetto alla Torah non è un semplice sviluppo nella continuità, ma implica un elemento di assoluta novità. È Joachim Jeremias a sottolineare come la differenza fra Gesù e il giudaismo non stia nei singoli precetti, ma nel presupposto fondamentale che sta dietro ad essi e che nella testimonianza del Profeta galileo è l'avvento del Regno di Dio nella sua persona[5]: "A ogni detto del discorso della montagna... è sottintesa la predicazione del regno di Dio... la testimonianza che Gesù diede di sé con la parola e coi fatti" (89). "Al kerygma fa seguito la didaché" (90): e il kerygma "apre il discorso della montagna sotto la forma delle beatitudini e delle frasi relative alla splendida sorte di chi è discepolo di Cristo" (90). "Solo per la grandezza del dono divino diviene comprensibile la gravità della richiesta di Gesù" (91). La differenza fondamentale fra l'insegnamento di Gesù e la Torah di Mosè sta allora nel fatto che "il discorso della montagna non è legge, ma evangelo... La legge affida l'uomo alle sue proprie forze e lo incita a impegnarsi fino all'estremo. L'evangelo invece pone l'uomo di fronte al dono di Dio e lo incita a fare, di tale inesprimibile dono, il fondamento della vita. Sono due mondi... Dalla riconoscenza del figlio di Dio redento ha inizio una nuova vita. Ecco il significato del discorso della montagna" (93). La Torah dice: "Fa' quanto insegno, e vivrai". Gesù dice: "Vivi la vita che ti dono, e farai quello che ti chiedo". Gesù non abolisce la Torah, non abbatte la siepe intorno alla Legge, come vorrebbe Neusner. E neppure radicalizza la Torah innalzando di qualche gradino le sue esigenze. Gesù dona la vita nuova che viene da Dio per realizzare e superare la Torah.

4. In Gesù il compimento della Torah. Siamo così giunti al punto decisivo: "Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento" (Mt 5,17). È il punto che si sforza di chiarire Joseph Ratzinger - Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[6]: fra la semplice contrapposizione e la concordanza, la relazione fra l'insegnamento di Gesù sul monte e quello di Mosè al Sinai va intesa come novità non nella rottura, ma nel compimento. "La ‘Torah del Messia è del tutto nuova, diversa - ma proprio così ‘porta a compimento' la Torah di Mosè" (126). "Non è più la ‘carne' - la discendenza fisica da Abramo - a decidere, ma lo ‘spirito': l'appartenenza all'eredità di fede e di vita di Israele attraverso la comunione con Gesù Cristo, il quale ha ‘spiritualizzato' la Legge trasformandola così in un cammino di vita aperto a tutti. Nel Discorso della montagna Gesù parla al suo popolo, a Israele, in quanto primo portatore della promessa. Ma nel consegnargli la nuova Torah, lo apre in modo che ora da Israele e dagli altri popoli possa nascere una nuova grande famiglia di Dio" (127).

La continuità implicita nell'idea di compimento sta nel fatto che proprio in base alla Torah si può dire che "Israele non esiste semplicemente solo per se stesso, per vivere delle ‘eterne' disposizioni della legge - ma per diventare luce dei popoli" (143). Gesù "ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l'universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo... È questo che lo qualifica come il ‘Messia' e dà alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un'apertura completamente nuova" (144). La comunione con Gesù è comunione filiale col Padre e come tale "è un sì al quarto comandamento su una base nuova e a un livello più elevato. È l'ingresso nella famiglia di coloro che a Dio dicono Padre e possono dirlo nel ‘noi' di coloro che con Gesù e mediante l'ascolto a Lui prestato sono uniti alla volontà del Padre e così stanno nel nucleo di quella obbedienza a cui la Torah mira" (145). Insomma, sono le stesse promesse contenute nella Legge che implicano il suo compimento: "Nella struttura intrinseca della Torah, nella sua evoluzione mediante la critica profetica e nel messaggio di Gesù che riprende entrambe, si trova insieme l'ampiezza per i necessari sviluppi storici e la base stabile che garantisce la dignità dell'uomo a partire dalla dignità di Dio" (156).

Perciò, Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè. E, perciò, la fedeltà alla Torah non può fermarsi all'applicazione legalistica di essa, ma deve aprirsi al compimento della promessa fatta a Israele dal suo Dio per bocca dello stesso Mosè: "Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto" (Dt 18,15). L'ebraicità di Gesù è dunque fuori discussione, e si deve essere grati a chi - come Neusner o Lapide - la rivendica con onestà e rispetto. Parimenti, però, è innegabile la novità del suo insegnamento e della sua opera: non si tratta né di una semplice radicalizzazione di quanto già detto a Israele, né di una blasfema violazione dei comandamenti dati sul Sinai. La novità è la persona stessa di Gesù e l'avvento del tempo messianico che in Lui si offre, come tempo della grazia e della misericordia del Dio dell'alleanza: è la novità dell'amore effuso dall'alto attraverso di Lui nei cuori di chi crede. È quel possibile, impossibile amore - impossibile agli uomini, reso possibile dal dono divino - che il discorso della montagna descrive come frutto dell'accoglienza della buona novella che Gesù annuncia, che Gesù è. Gesù di Nazaret, Ebreo per sempre, è il Figlio di Dio dall'eternità, fattosi uomo per aprire a chiunque creda la porta del cielo. La differenza - accettata o rifiutata - sta tutta qui: come sta qui l'esigenza imprescindibile per un discepolo del Maestro galileo di amare Israele e la sua fede per sempre.




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1) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.

2) H.L. Strack - P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Beck, München 1922, 1. Bd. Das Evangeluium nach Matthäus.

3) San Paolo, Cinisello Balsamo 2007 (originale inglese: A Rabbi talks with Jesus, McGill-Queen's University Press 2000).

4) Paideia, Brescia 2003.

5) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.

6) Rizzoli, Milano 2007.

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