lunedì 15 marzo 2010

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Servizio quotidiano - 15 marzo 2010

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Benedetto XVI ai giovani: "Abbiamo bisogno di voi"
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI ha voluto lanciare un appello all'impegno dei giovani nei confronti della società attraverso il suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù, che si celebrerà la Domenica delle Palme, il 28 marzo.

Nel testo, diffuso dalla Santa Sede questo lunedì, il Pontefice ricorda ai giovani l'importanza delle loro scelte fondamentali di fronte alla società del futuro e li invita a mantenere la speranza. "Abbiamo bisogno di voi", riconosce.

Dopo aver commentato il brano evangelico del giovane ricco, tema di questa Giornata, il Papa richiama il messaggio rivolto ai giovani nel 1985 da Giovanni Paolo II chiedendo loro di non avere paura di assumersi le proprie responsabilità.

"Chi vive oggi la condizione giovanile si trova ad affrontare molti problemi derivanti dalla disoccupazione, dalla mancanza di riferimenti ideali certi e di prospettive concrete per il futuro", riconosce.

In questo contesto, "talora si può avere l'impressione di essere impotenti di fronte alle crisi e alle derive attuali", ma il Papa invita i giovani a non cedere allo scoraggiamento: "Nonostante le difficoltà, non lasciatevi scoraggiare e non rinunciate ai vostri sogni!".

"Il futuro è nelle mani di chi sa cercare e trovare ragioni forti di vita e di speranza", sottolinea.

"Se vorrete, il futuro è nelle vostre mani, perché i doni e le ricchezze che il Signore ha rinchiuso nel cuore di ciascuno di voi, plasmati dall'incontro con Cristo, possono recare autentica speranza al mondo!".

"È la fede nel suo amore che, rendendovi forti e generosi, vi darà il coraggio di affrontare con serenità il cammino della vita ed assumere responsabilità familiari e professionali".

Sfide attuali

Benedetto XVI ricorda quindi ai giovani "alcune grandi sfide attuali" "urgenti ed essenziali per la vita di questo mondo", che ha già citato nella sua Enciclica Caritas in Veritate.

Tra queste, indica "l'uso delle risorse della terra e il rispetto dell'ecologia, la giusta divisione dei beni e il controllo dei meccanismi finanziari, la solidarietà con i Paesi poveri nell'ambito della famiglia umana, la lotta contro la fame nel mondo, la promozione della dignità del lavoro umano, il servizio alla cultura della vita, la costruzione della pace tra i popoli, il dialogo interreligioso, il buon uso dei mezzi di comunicazione sociale".

"Sono sfide alle quali siete chiamati a rispondere per costruire un mondo più giusto e fraterno - segnala -. Sono sfide che chiedono un progetto di vita esigente ed appassionante, nel quale mettere tutta la vostra ricchezza secondo il disegno che Dio ha su ciascuno di voi".

Ad ogni modo, "non si tratta di compiere gesti eroici né straordinari, ma di agire mettendo a frutto i propri talenti e le proprie possibilità, impegnandosi a progredire costantemente nella fede e nell'amore".

"Cristo chiama ciascuno di voi a impegnarsi con Lui e ad assumersi le proprie responsabilità per costruire la civiltà dell'amore - conclude -. Se seguirete la sua Parola, anche la vostra strada si illuminerà e vi condurrà a traguardi alti, che danno gioia e senso pieno alla vita".

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Il Papa ai giovani: per scoprire la propria via, "mettersi in ascolto di Dio"
Messaggio per la XXV Giornata Mondiale della Gioventù
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- Nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù, che si celebrerà a livello diocesano il 28 marzo prossimo, Domenica delle Palme, Benedetto XVI invita i giovani a mettersi in ascolto di Dio per scoprire quale progetto ha sulla loro vita.

Quello di quest'anno è un evento particolarmente importante, perché la Giornata, che avrà come tema "Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?" (Mc 10,17), festeggia il 25° anniversario dell'istituzione da parte di Papa Giovanni Paolo II.

Il Pontefice definisce quella del suo predecessore un'"iniziativa profetica", sottolineando che "ha portato frutti abbondanti, permettendo alle nuove generazioni cristiane di incontrarsi, di mettersi in ascolto della Parola di Dio, di scoprire la bellezza della Chiesa e di vivere esperienze forti di fede che hanno portato molti alla decisione di donarsi totalmente a Cristo".

La frase che fa da guida alla Giornata 2010 è tratta dall'episodio evangelico dell'incontro di Gesù con il giovane ricco, tema già affrontato da Giovanni Paolo II nel 1985 in una Lettera indirizzata per la prima volta ai giovani.

Progetto di vita

Nel giovane del Vangelo, ha spiegato Benedetto XVI, si può scorgere una condizione molto simile a quella di ciascuno dei ragazzi a cui ha destinato il suo Messaggio.

"Anche voi siete ricchi di qualità, di energie, di sogni, di speranze: risorse che possedete in abbondanza! - scrive il Papa -. La stessa vostra età costituisce una grande ricchezza non soltanto per voi, ma anche per gli altri, per la Chiesa e per il mondo".

"La stagione della vita in cui siete immersi è tempo di scoperta: dei doni che Dio vi ha elargito e delle vostre responsabilità", ricorda, aggiungendo che è anche il "tempo di scelte fondamentali per costruire il vostro progetto di vita".

"E' il momento, quindi, di interrogarvi sul senso autentico dell'esistenza e di domandarvi: 'Sono soddisfatto della mia vita? C'è qualcosa che manca?'".

Il Papa ha riconosciuto che i giovani, come quello del Vangelo, possono vivere "situazioni di instabilità, di turbamento o di sofferenza", che li portano ad "aspirare ad una vita non mediocre" e a chiedersi in cosa consista "una vita riuscita", quale potrebbe essere il proprio progetto di vita e che cosa si debba fare perché la vita "abbia pieno valore e pieno senso".

"Non abbiate paura di affrontare queste domande!", ha esortato. "Lontano dal sopraffarvi, esse esprimono le grandi aspirazioni, che sono presenti nel vostro cuore".

Per questo, ha segnalato, "vanno ascoltate" e "attendono risposte non superficiali, ma capaci di soddisfare le vostre autentiche attese di vita e di felicità".

"Per scoprire il progetto di vita che può rendervi pienamente felici, mettetevi in ascolto di Dio, che ha un suo disegno di amore su ciascuno di voi", ha consigliato il Pontefice.

"Con fiducia, chiedetegli: 'Signore, qual è il tuo disegno di Creatore e Padre sulla mia vita? Qual è la tua volontà? Io desidero compierla'. Siate certi che vi risponderà. Non abbiate paura della sua risposta! Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa".

Accogliere la vocazione

Nell'Anno Sacerdotale, il Pontefice ha un pensiero particolare per chi sente una chiamata alla vita consacrata.

"La vocazione cristiana scaturisce da una proposta d'amore del Signore e può realizzarsi solo grazie a una risposta d'amore", constata.

In questo contesto, esorta "i giovani e i ragazzi ad essere attenti se il Signore invita ad un dono più grande, nella via del Sacerdozio ministeriale, e a rendersi disponibili ad accogliere con generosità ed entusiasmo questo segno di speciale predilezione, intraprendendo con un sacerdote, con il direttore spirituale il necessario cammino di discernimento".

"Non abbiate paura, poi, cari giovani e care giovani, se il Signore vi chiama alla vita religiosa, monastica, missionaria o di speciale consacrazione: Egli sa donare gioia profonda a chi risponde con coraggio!".

Allo stesso modo, invita quanti sentono la vocazione al matrimonio "ad accoglierla con fede, impegnandosi a porre basi solide per vivere un amore grande, fedele e aperto al dono della vita, che è ricchezza e grazia per la società e per la Chiesa".

In tutti questi casi, si tratta di rispondere al progetto che Dio ha per ciascuno. "Sull'esempio di tanti discepoli di Cristo, anche voi, cari amici, accogliete con gioia l'invito alla sequela, per vivere intensamente e con frutto in questo mondo", conclude il Papa. "Non è mai troppo tardi per rispondergli!".

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Il Papa: per raggiungere la pace, bisogna cambiare il cuore
Riceve i Vescovi del Sudan a Roma per la visita ad limina
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- Per raggiungere la pace è necessario un vero cambiamento, iniziando da quello del cuore.

Benedetto XVI lo ha spiegato questo sabato mattina ricevendo in udienza i Vescovi del Sudan, a Roma in occasione della loro visita quinquennale ad limina apostolorum al Papa e alla Curia romana.

"So quanto voi e i fedeli del vostro Paese desideriate la pace, e quanto pazientemente vi adoperate per il suo ripristino", ha riconosciuto il Pontefice riferendosi al conflitto che insanguina da decenni il Paese opponendo il nord prevalentemente arabo al sud cristiano e animista.

"Se la pace significa mettere radici profonde, bisogna compiere sforzi comuni per diminuire i fattori che contribuiscono ai conflitti, in particolare la corruzione, le tensioni etniche, l'indifferenza e l'egoismo", ha sottolineato.

In questo senso, ha esortato a promuovere iniziative "basate sull'integrità, su un senso di fraternità universale e sulle virtù della giustizia, della responsabilità e della carità", ricordando che "trattati e altri accordi, elementi indispensabili del processo di pace, recheranno frutti solo se saranno ispirati e accompagnati dall'esercizio di una guida matura e moralmente retta".

"Gli effetti della violenza potrebbero impiegare anni per attenuarsi - ha riconosciuto -, ma il mutamento del cuore che è la condizione indispensabile per una pace giusta e duratura deve essere implorato fin da ora quale dono della grazia di Dio".

Il contributo della Chiesa

Benedetto XVI ha quindi riconosciuto l'importante ruolo della Chiesa in Sudan, Paese nel quale i cattolici rappresentano un'esigua minoranza (su 37 milioni di abitanti, i cristiani sono il 17%, e i cattolici appena il 15% di questi ultimi), ma sono molto attivi nell'"aiutare i poveri a vivere con dignità e rispetto di sé, a trovare un lavoro a lungo termine e a essere in grado di dare il proprio contributo alla società".

In questo contesto, ha chiesto ai Vescovi che la loro predicazione e attività pastorale "continuino a essere ispirate da una spiritualità di comunione che unisce le menti e i cuori in obbedienza al Vangelo, dalla partecipazione alla vita sacramentale della Chiesa e dalla fedeltà alla vostra autorità episcopale".

"Voi stessi dovete essere i primi insegnanti e testimoni della nostra comunione di fede e dell'amore di Cristo, condividendo iniziative comuni, ascoltando i vostri collaboratori, aiutando sacerdoti, religiosi e fedeli ad accettarsi e sostenersi reciprocamente senza distinzione di razza o gruppo etnico, in uno scambio generoso di doni", ha aggiunto.

Per questa ragione, il Papa ha esortato i Vescovi a dedicarsi al rafforzamento dell'educazione cattolica, "e quindi a preparare i laici in particolare a recare una testimonianza convincente di Cristo in ogni aspetto della famiglia, della vita politica e sociale".

Dopo i genitori, infatti, "i catechisti sono il primo anello nella catena di trasmissione del prezioso tesoro della fede".

Dialogo interreligioso

Il Pontefice ha quindi espresso il proprio apprezzamento per gli sforzi compiuti dai Vescovi sudanesi per mantenere buoni rapporti con i seguaci dell'islam.

A questo proposito, ha esortato a "sottolineare i valori che i cristiani condividono con i musulmani, come base per quel 'dialogo di vita' che è un primo passo essenziale verso un rispetto e una comprensione interreligiosi autentici".

"La stessa apertura e lo stesso amore dovrebbero essere dimostrati verso chi appartiene alle religioni tradizionali", ha riconosciuto.

Un'evangelizzazione difficile

Nel suo saluto al Pontefice, il Vescovo Rudolf Deng Majak, presidente della Conferenza Episcopale del Sudan, ha sottolineato la difficoltà di diffondere il cristianesimo nel Paese.

Il motivo, ha spiegato, è essenzialmente la carenza di persone e "di risorse materiali per portare avanti la necessaria opera di evangelizzazione". I religiosi vivono spesso in grande povertà, e devono compiere lunghi viaggi senza alcun mezzo di trasporto per poter raggiungere le comunità più lontane.

Nonostante gli ostacoli, la Chiesa è molto impegnata, soprattutto nei confronti dei giovani. "Abbiamo molte scuole gestite dalla Chiesa. Centinaia di catechisti svolgono l'opera di evangelizzazione e si occupano dei servizi di preghiera domenicali - ha sottolineato come riporta "L'Osservatore Romano" -. Nel periodo post-bellico il ministero giovanile sta diventando un'importante responsabilità per la società e per la Chiesa".

Allo stesso modo, si presta particolare attenzione alla formazione dei responsabili delle comunità e dei seminaristi, così come alla formazione permanente di sacerdoti, religiosi e religiose.

"Nei nostri programmi pastorali - ha aggiunto - la priorità è stata dedicata alla giustizia, alla pace e alla riconciliazione".

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Nicaragua: una Chiesa nel pantano (parte I)
Intervista al Vescovo ausiliario David Zywiec di Bluefields

BLUEFIELDS, Nicaragua, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il Nicaragua è stato devastato dalla guerra civile, dalle dittature e dalle catastrofi naturali. Oggi è uno dei Paesi più poveri del mondo occidentale.

Il francescano David Zywiec è il Vescovo ausiliario del Vicariato di Bluefields, e la sua giurisdizione abbraccia quasi l’intera metà orientale del Paese, compresa l’area nota come la Mosquito Coast.

Il presule di 62 anni, originario di East Chicago, nell’Indiana, ha recentemente parlato della vita della Chiesa in Nicaragua, al programma televisivo “Where God Weeps”, gestito da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ci può spiegare come un polacco-americano possa essere finito a Bluefields, nel Nicaragua?

Mons. Zywiec: Furono i miei nonni ad attraversare l’oceano, circa 100 anni fa, partendo dalla Polonia. Personalmente, sono diventato prete attratto dai francescani cappuccini, che mi sembravano un gruppo molto felice.

Sono andato in seminario e dopo aver ascoltato i racconti sulle loro missioni in Nicaragua mi sono offerto volontario. I miei superiori mi hanno risposto dicendo: “Abbiamo bisogno che tu vada lì”. Sono stato ordinato nel giugno del 1974, e nel gennaio dell’anno seguente ero già in Nicaragua.

Qual è stata la sua prima impressione al suo arrivo?

Mons. Zywiec: Quando sono arrivato ero un po’ sorpreso. Sono andato con un mio compagno di classe, guidando una jeep che era stata donata e che dovevamo portare in Nicaragua. Pensavo che avremmo ricevuto una specie di benvenuto da eroi.

Ma il fatto è che circa una settimana prima del nostro arrivo vi era stato un rapimento e il Presidente aveva imposto nel Paese la legge marziale e il coprifuoco. Noi non lo sapevamo. Così siamo arrivati verso le 9 di sera, attraversando la frontiera poco prima della chiusura.

L’accoglienza da parte degli altri missionari è stata: “Cosa? Arrivate a quest’ora? Non sapete che c’è il coprifuoco? I soldati avrebbero potuto spararvi e lasciarvi morti per strada”.

Abbiamo quindi subito preso atto della violenta realtà locale. Questa è stata la nostra prima impressione.

Siete stati mai minacciati o vi siete mai sentiti minacciati in Nicaragua?

Mons. Zywiec: Beh, una volta, mentre lavoravo nella giungla. Subito dopo il mio arrivo nel Paese, hanno inviato “i missionari più anziani ai villaggi e quelli più giovani nella giungla”.

Era il periodo sandinista, l’organizzazione che si ribellava al Governo. I guerriglieri erano nascosti nella giungla e sapevo che erano in corso dei bombardamenti lì; avevo un po’ paura.

Dicevo a me stesso: “I miei genitori stanno pagando le tasse al Governo USA e il Governo USA sta aiutando quello nicaraguense, e in questa area vengono sganciate bombe contro i guerriglieri”.

Io non ho mai visto una di queste bombe, però la cosa mi faceva un po’ paura. Ma Iddio è buono e ora sono qui a raccontarlo.

Qual è stata la cosa più difficile da superare o a cui adattarsi nella sua nuova vita in Nicaragua?

Mons. Zywiec: Io sono arrivato nel 1975, quindi subito dopo il Concilio Vaticano II. Quando ero in seminario, a studiare teologia, ero contento perché avevamo una teologia nuova e delle istruzioni pastorali. Mi sentivo aggiornato rispetto ai missionari più anziani.

Ma poi l’esercito del Governo ha arrestato delle persone e le ha torturate. Alcune sono “scomparse”, di altre abbiamo saputo in seguito che erano state uccise. Facendo i conti, nell’arco di un biennio le forze governative avevano sequestrato 300 persone.

Che si fa in una situazione del genere? Noi non eravamo stati addestrati a questo!

Non si sarebbe mai immaginato di doversi confrontare con questo.

Mons. Zywiec: No. Non si parlava di questo a lezione di teologia. Abbiamo avuto un po’ di istruzione pastorale, sugli apostolati giovanili, eccetera, ma questa era una situazione di crisi. L’unica cosa che ho potuto fare è stato riferire tutte le mie informazioni al vescovo – monsignor Schlaefer –, il quale mi ha molto rassicurato.

Nel Vicariato di Bluefields rientra quella che viene chiamata la “Mosquito Coast”. Da cosa deriva il nome?

Mons. Zywiec: La parte orientale del Nicaragua, che si trova all’interno del Vicariato di Bluefields, non è stata mai conquistata dagli spagnoli e gli indiani Miskito che la abitano sono rimasti autonomi.

Questa popolazione aveva in passato una sorta di impero che si estendeva dalla costa caraibica di Panama, attraverso il Costa Rica e il Nicaragua fino in Honduras. Erano molto potenti allora, nel XVIII secolo.

Il Vicariato apostolico di Bluefields si estende su un’area di più di 59 mila chilometri quadrati. È enorme! Ci può descrivere una tipica visita pastorale nei villaggi, tra i parrocchiani?

Mons. Zywiec: Solitamente chiedo alla gente quattro cose. Anzitutto del tempo per ascoltare le confessioni. Poi per celebrare la Messa, insieme a una cresima o altro sacramento come il battesimo o il matrimonio.

Poi chiedo di incontrare il direttivo della chiesa. Questo mi dà modo di instaurare un buon dialogo.

Infine dico: “vorrei qualcosa da mangiare”. Generalmente, quando viene il Vescovo, poiché non hanno l’elettricità, spesso macellano una mucca o un maiale perché non hanno modo di conservare il cibo. Così c’è da mangiare per tutti e tutti mangiano insieme!

Il Vicariato apostolico di Bluefields copre quasi la metà di tutto il Nicaragua. Voi siete 25 preti. Non siete un po’ oberati?

Mons. Zywiec: Sì, in effetti questo è un problema. Abbiamo circa 1.000 chiese e solo 14 parrocchie. Una piccola parrocchia può avere circa 30 chiese di cui doversi prendere cura. Un sacerdote del Milwaukee, che ha quasi 80 anni, visita più di 100 chiese.

Ogni domenica, nelle chiese, si svolge la celebrazione della Parola. Le persone che guidano queste celebrazioni sono i “Delegati della Parola”. Solitamente ne abbiamo due per ogni chiesa, di modo che se uno si ammala o ha altri impedimenti, l’altro sia pronto a sostituirlo.

Poi abbiamo un catechista per i battesimi, uno per le prime comunioni e le confessioni, un altro per la cresima e uno per i matrimoni.

Solitamente, una volta l’anno questi catechisti frequentano un corso di formazione. Alcune parrocchie hanno anche corsi per i musicisti. E poi ci sono i movimenti. Noi li chiamiamo movimenti per i ritiri. È un modo per aiutare a far crescere la fede, a formare veri leader. Dipendiamo molto dai laici.

Quanti missionari siete? Lei ha detto che molti di voi stanno diventando anziani. Da dove vengono le nuove leve? Ci sono vocazioni in Nicaragua?

Mons. Zywiec: I preti su cui possiamo contare sono quelli provenienti dal Vicariato di Bluefields; ci sono missionari e persone che ci aiutano, ma i nostri preti diocesani del luogo sono quelli su cui possiamo contare di più, e abbiamo visto che molte delle nostre vocazioni vengono dalle famiglie che sono leader in una comunità.

Per esempio, dove c’è un diacono sposato, o un delegato della Parola, si vive questo impegno cristiano, che è terreno fertile per le vocazioni, non solo al sacerdozio ma anche alla vita religiosa. Per esempio, in un villaggio di circa 10.000 anime, negli ultimi 20 anni, 15 ragazze sono entrate in convento. Credo che sia molto bello vedere una cosa del genere.

Che manifestazioni di fede popolare o di devozioni avete nel Vicariato?

Mons. Zywiec: Si fanno molte processioni. Per quanto ne so, negli Stati Uniti, le processioni si svolgevano solitamente all’interno. Ma in Nicaragua il clima è più caldo e le persone sono abituate a fare le processioni all’aperto, come quella per la Settimana Santa.

Per la Settimana Santa in alcuni villaggi ci sono processioni per la Via Crucis mentre per la Vigilia di Pasqua si fa la benedizione del cero pasquale all’aperto e poi l’ingresso in chiesa con una processione.

Anche per le feste patronali si fanno le processioni con la statua del santo patrono che attraversa il paese, cantando e pregando il rosario. Questo è normale. È una parte normale della vita della chiesa. L'unica cosa è che preghiamo anche che non piova troppo.

Oltre alle dimensioni del territorio, quale sarebbe secondo lei la maggiore difficoltà nell’evangelizzazione della popolazione miskito?

Mons. Zywiec: Sebbene il territorio sia vasto, forse non è tanto un problema di dimensioni, ma di trasporto e di comunicazione. Credo che in tutta l’area vi siano circa 100 chilometri di strade asfaltate, mentre il resto è formato da strade sterrate. Piove molto e spesso ci si ritrova impantanati.

Un altro elemento è che delle 1.000 chiese, 100 sono di lingua miskito; mentre nelle altre si parla spagnolo. Ci sono principalmente contadini che praticano un'agricoltura di sussistenza e sono impegnati quotidianamente nella coltivazione e nell’allevamento.

Forse una delle principali preoccupazioni è che la gente possa non solo ricevere i sacramenti – essere battezzati – ma che possa anche imparare di più sulla propria fede e su cosa significhi vivere quotidianamente una più profonda evangelizzazione. Credo anche che sia molto importante per noi promuovere le vocazioni, al fine di poter avere sacerdoti in futuro.

È importante anche una promozione umana, attraverso le scuole e i programmi sanitari, di modo che la gente non solo ascolti la Parola di Dio, ma possa anche vivere in modo più umano e partecipare consapevolmente alla vita nazionale, così da non essere dimenticata.

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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.

www.acs-italia.glauco.it



[La trascrizione dell’intervista è divisa in due parti. La seconda parte sarà pubblicata il 22 marzo prossimo]

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Egitto: tremila musulmani attaccano una comunità cristiana copta
25 feriti tra i fedeli, che erano riuniti in preghiera
ROMA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- La voce secondo la quale i cristiani volevano costruire un'altra chiesa ha scatenato una reazione violenta di circa tremila musulmani, che aizzati dall'imam locale hanno assaltato una comunità copta in Egitto mentre era riunita in preghiera.

Nell'edificio adiacente la chiesa locale, ricorda AsiaNews, erano presenti quattro sacerdoti, un diacono e 400 parrocchiani. Tra i feriti ci sono anche donne e bambini.

L'attacco è avvenuto venerdì pomeriggio nella provincia nord-occidentale di Mersa Matrouh.

Gli assalitori - un insieme di beduini e fanatici salafiti - hanno iniziato a lanciare pietre contro il cantiere di quella che pensavano fosse una nuova chiesa. I cristiani dicono che in realtà si sta costruendo un ospizio e confessano di essere "terrorizzati" per l'attacco subito.

Le forze di sicurezza presenti hanno lanciato gas lacrimogeni e arrestato una ventina di persone fra musulmani e cristiani.

L'imam locale Shaikh Khamees ha acceso gli animi durante la preghiera del venerdì, sottolineando il dovere di combattere i "nemici" dell'islam e dichiarando: "Non tolleriamo la presenza cristiana nelle nostre zone".

"I copti sono spaventati, soprattutto donne e bambini che erano presenti all'interno dell'edificio e hanno assistito all'assalto", ha affermato il reverendo Matta Zakarya, che ha riferito dello svolgimento di un vertice tra i leader della Chiesa locale, le forze di sicurezza statali e alcuni rappresentanti musulmani.

In Egitto la comunità cristiana copta rappresenta il 10% su una popolazione di quasi 80 milioni di abitanti ed è vittima di discriminazioni e attacchi, come quello avvenuto a gennaio a Naga Hamadi in occasione del Natale ortodosso e costato la vita a sei cristiani e a un poliziotto musulmano (cfr. ZENIT, 7 gennaio 2010).

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I Vescovi di Hiroshima e Nagasaki chiedono di abolire le armi nucleari
Nove Chiese britanniche lanciano una campagna analoga
di Nieves San Martín

TOKYO, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- I Vescovi cattolici di Hiroshima e Nagasaki - le uniche città ad aver subito bombardamenti nucleari in tempo di guerra - esortano i leader mondiali ad abolire le armi nucleari, affermando che al mondo ce ne sono 20.000.

Il Vescovo di Nagasaki Mitsuaki Takami e quello di Hiroshima Joseph Atsumi Misue hanno emesso una dichiarazione congiunta il 26 febbraio, prima di un vertice sulla sicurezza nucleare previsto ad aprile a Washington e di una conferenza di revisione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare in programma per maggio a New York.

"Come Vescovi della Chiesa cattolica di Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, che è l'unico Paese al mondo ad aver subito attacchi nucleari, chiediamo che il Presidente degli Stati Uniti, il Governo giapponese e i leader di altri Paesi compiano tutti gli sforzi possibili per abolire le armi nucleari", afferma la dichiarazione.

Il Vescovo Takami è nato nel marzo 1946 a Nagasaki, la seconda città a subire un bombardamento nucleare nell'agosto 1945, durante la II Guerra Mondiale. Sua madre era incinta quando la città venne bombardata dopo che Hiroshima aveva subito il primo attacco.

I presuli affermano che il peccato dei bombardamenti atomici sulle due città "dovrebbero essere attribuiti non solo agli Stati Uniti", ma "anche agli altri Paesi, incluso il Giappone, che hanno persistito nell'iniziare guerre nel corso della loro storia".

Esortano anche agli Stati Uniti a "limitare il proposito di conservare armi nucleari solo per dissuadere altri dall'usarle", chiedendo "almeno un primo passo verso l'eliminazione delle armi nucleari" nella Revisione dell'Atteggiamento Nucleare degli USA, la guida della politica nucleare statunitense.

I Vescovi chiedono quindi al Giappone, che ha un trattato bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti, di "dimostrare che il Giappone stesso agirà per l'abolizione totale delle armi nucleari".

Il Giappone, affermano, ha "un atteggiamento estremamente passivo" nei confronti delle politiche di riduzione degli armamenti nucleari degli USA, perché il Paese è sotto la protezione di un ombrello nucleare statunitense.

Nel frattempo, il 5 marzo, un gruppo di nove Chiese in Gran Bretagna ha lanciato una campagna analoga a quella dei Vescovi giapponesi che esorta il Governo britannico a impegnarsi per raggiungere un mondo libero dalle armi nucleari, costruendo così un futuro più sicuro per tutti.

In una campagna dal titolo "Il momento è questo", si sono unite al Consiglio Mondiale delle Chiese e ad altri per esercitare pressioni sui Governi affinché pongano tutto il materiale suscettibile di fabbricare bombe sotto controllo internazionale e a favore di un impegno per rendere illegale l'uso delle armi nucleari mediante la Convenzione sulle Armi Nucleari.

L'alleanza include la Chiesa d'Inghilterra, la Chiesa Presbiteriana di Scozia, quella Metodista, l'Unione Battista della Gran Bretagna, i Quaccheri, la Chiesa Unita Riformata, il Dipartimento per gli Affari Internazionali della Conferenza Episcopale Cattolica di Inghilterra e Galles e la Conferenza Episcopale Cattolica di Scozia.

Per consultare l'originale in inglese del documento dei Vescovi giapponesi: http://www.cbcj.catholic.jp/eng/edoc/100226.htm.

Per accedere alla campagna delle Chiese britanniche: www.methodist.org.uk/index.cfm?fuseaction=opentogod.stories.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Almeno 100 milioni di bambine eliminate nel mondo
E' un "genericidio", denuncia la rivista "The Economist"

di Nieves San Martín

LONDRA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- La rivista britannica “The Economist”, nel suo numero del 4 marzo, pubblica un articolo in cui si denuncia il massacro di bambine nel mondo, che arriva almeno a cento milioni e viene definito “genericidio”.

L'articolo è intitolato “The war on baby girls. Gendercide. Killed, aborted or neglected, at least 100m girls have disappeared - and the number is rising” (“La guerra contro le bambine. ‘Genericidio’. Assassinate, abortite o abbandonate, almeno cento milioni di bambine sono scomparse – e il numero sta aumentado”).

Il testo evoca la situazione di una giovane coppia che aspetta il primo figlio in una regione povera del mondo ma in forte sviluppo. I costumi tradizionali hanno insegnato loro a preferire i figli maschi rispetto alle femmine. La giovane coppia può accedere a un'ecografia che rivela che aspettano una bambina. Che cosa fa?

Per milioni di coppie, afferma “The Economist”, “la risposta è: aborto per le bambine, vita per i maschi. In Cina e nel nord dell'India, nascono 120 maschi per ogni 100 femmine. La natura dimostra che i maschi, anche se di poco, sono più esposti alle malattie infantili, ma sul piatto della bilancia questo non conta”.

“Per quanti si oppongono all'aborto, è un vero genocidio”, afferma “The Economist”. Per la rivista, anche quando ci si pronuncia per un aborto “sicuro, legale ed eccezionale”, “la somma delle azioni individuali ha un effetto catastrofico per la società”.

Solo la Cina, indica, ha un numero di uomini non sposati - i cosiddetti “rami spogli” - equivalente al numero dei giovani maschi di tutta l'America. In alcune zone questo provoca anche seri problemi: nelle società asiatiche, in cui sposarsi e avere figli è l'unica via riconosciuta a livello sociale, gli uomini celibi sono come criminali. La delinquenza, il traffico di donne, le violenze sessuali, al di là dei suicidi femminili, sono in continua crescita e aumenteranno man mano che le generazioni squilibrate giungeranno alla maturità.

The Economist” osserva che “non è un'esagerazione parlare di 'genericidio'. Le donne stanno scomparendo – abortite, assassinate, spinte alla morte. Nel 1990, l'economista indiano Amartya Sen ha calcolato la cifra di 100 milioni, che oggi è molto più alta.

La rivista dà per scontato che molte persone sappiano che in Cina e nel nord dell'India “c'è un numero innaturale di maschi”, ma aggiunge che “pochi si rendono conto della profondità di questo problema e di quanto stia aumentando”.

In Cina, il rapporto tra i sessi è di 108 maschi contro 100 femmine nella generazione nata nel 1980. Per le generazioni del 2000 è di 124 a 100. In alcune province cinesi arriva a 130 contro 100. La

situazione è ai massimi livelli in Cina, ma è diffusa anche in altri luoghi. In altre regioni dell'Asia orientale, come Taiwan e Singapore, in alcuni Stati ex comunisti nei Balcani occidentali e nel Caucaso e in alcuni gruppi della popolazione americana (i sinoamericani o i giapponesi, ad esempio), c'è una ratio distorta di selezione sessuale.

“Il ‘genericidio’ esiste in quasi tutti i continenti. Interessa allo stesso modo poveri e ricchi, ignoranti e istruiti, indù, musulmani e confuciani”, sostiene la rivista.

Neanche la ricchezza frena il fenomeno: Taiwan o Singapore hanno economie floride; in Cina e in India, le zone con i più gravi casi di “genericidio” sono quelle più ricche e con livelli di istruzione più elevati. La politica del figlio unico in Cina può essere solo una parte del problema, visto che la questione interessa altri Paesi che non hanno questa ideologia.

L'eliminazione dei feti femminili, ricorda “The Economist”, è una conseguenza di tre fattori: la radicata e antica preferenza per i figli maschi, la moderna propensione a creare famiglie piccole e l'uso di tecnologie a ultrasuoni che permettono di identificare con certezza il sesso del bambino con una diagnosi prenatale.

Solo un Paese ha deciso di invertire la tendenza. Nel 1990 la Corea del Sud aveva un rapporto tra maschi e femmine uguale o superiore a quello cinese, mentre oggi sta tornando ai livelli normali.

Ciò non si è verificato per scelta, ma perché è cambiata la cultura della popolazione. Istruzione femminile, atteggiamenti antidiscriminatori e leggi a favore della parità dei diritti hanno fatto sì che la preferenza per i figli maschi sia diventata anacronistica.

Questo, avverte la rivista, è tuttavia accaduto quando la Corea del Sud era un Paese ricco. Perché la Cina e l'India – con entrate di un quarto e un decimo rispetto a quelle della Corea – raggiungano lo stesso livello economico, dovranno passare molte generazioni.

Per favorire il cambiamento, osserva “The Economist”, si devono compiere alcune azioni: “La Cina dovrebbe ritirare la politica del figlio unico, ma le autorità si opporranno in quanto temono l'aumento della popolazione, così come hanno respinto la preoccupazione dell'Occidente per i diritti umani”.

Ad ogni modo, la pubblicazione prevede che “la limitazione del figlio unico non sarà utilizzata per molto tempo per ridurre la fertilità (altri Paesi dell'Asia hanno ridotto la pressione della popolazione tanto quanto la Cina)”. Il Presidente cinese Hu Jintao, ricorda, ha dichiarato che una delle sue principali intenzioni è quella di “creare una società armonica”, “e questo non si potrà ottenere se permarrà una politica così profondamente ostile alla famiglia”.

The Economist” conclude proponendo che tutti i Paesi promuovano “il valore del sesso femminile”. “Bisogna incoraggiare l'istruzione delle donne; abolire le leggi e gli usi che impediscono alle donne di ereditare; abolire i limiti relativi al sesso negli ospedali e nelle cliniche; inserire le donne nella vita pubblica in qualsiasi funzione – dalle annunciatrici televisive alle poliziotte”.

“Mao Zedong affermava: ‘Le donne sostengono la metà del cielo'. Il mondo deve far di più che prevenire un ‘genericidio’, deve evitare che il cielo ci cada sulla testa!”.

Per leggere l'articolo completo, http://www.economist.com/opinion/displaystory.cfm?story_id=15606229.



[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Sciolto il partito pedofilo olandese, "una grande vittoria morale"
Il commento di don Fortunato Di Noto, fondatore di Meter

AVOLA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il partito olandese dell'Amore Fraterno, della Libertà e della Diversità, il primo partito dichiaratamente pedofilo nato nel 2006 e che aveva tra i suoi obiettivi la liberalizzazione della pornografia infantile e i rapporti sessuali fra adulti e bambini, ha deciso di sciogliersi.

“Una bella notizia quella di oggi. Una bella vittoria civile”, ha commentato don Fortunato Di Noto, pioniere nella lotta alla pedofilia e fondatore dell'Associazione Meter onlus (www.associazionemeter.org), che fin dalla sua costituzione aveva avviato una campagna contro questo partito.

“Gli esponenti del partito olandese dell'Amore Fraterno, della Libertà e della Diversità - che mirava ad abbassare l'età del consenso a 12 anni ed è per questo stato accusato di fomentare la pedofilia - ha deciso di sciogliersi dopo non essere riuscito per la seconda volta a raccogliere le 600 firme necessarie a concorrere alle prossime elezioni politiche”, ha spiegato il sacerdote siciliano.

“Per poter eleggere un deputato il movimento, creato nel 2006, avrebbe dovuto ottenere circa 60mila voti”, spiega.

Per questa ragione, continua, “i fondatori del movimento hanno dichiarato che il dibattito e le polemiche sollevate dal partito hanno impedito ogni seria discussione dei suoi obiettivi, e dunque i suoi membri hanno optato per lo scioglimento”.

Tuttavia, don Fortunato Di Noto denuncia la presenza ancora oggi di una serie di siti (migliaia, da tutto il mondo)  a favore della pedofilia.

“Sono migliaia - dichiara il fondatore di Meter - ancora i siti che promuovono la liceità e la normalizzazione degli abusi sessuali. Una vera e propria strategia per rendere normale ciò che è invece un orrore”.

“Per ora ci prendiamo questa vittoria - conclude don Fortunato -: lo scioglimento di questo fantomatico partito l’hanno deciso coloro che sono dalla parte dei bambini. Speriamo che chiudano anche il loro portale”.

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La strategia di un Vescovo per far fiorire il seminario della sua Diocesi
Per la prima volta in 9 anni, cresce il numero dei seminaristi in Spagna
MADRID, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- "Quando nel 2005 sono arrivato nella Diocesi di Tarazona, ho trovato il Seminario quasi vuoto", ha spiegato il Vescovo Demetrio Fernández in una lettera pastorale scritta in occasione della prossima Giornata del Seminario, che si celebra nella maggior parte delle Diocesi spagnole il 19 marzo.

La prima cosa che ha fatto il presule è stata ribellarsi ed elevare molte preghiere.

"Non potevo rassegnarmi a questa realtà così schiacciante, così scoraggiante per una Diocesi, e ho iniziato a pregare il Signore insistentemente perché inviasse operai alla sua messe, perché aprisse una via per questa situazione senza uscita", ha confessato.

"Ho chiesto di pregare a molti conventi di clausura della Diocesi e di tutta la Spagna - ha continuato -. Ho constatato che molta gente ha pregato per il seminario di Tarazona".

Dopo aver gettato queste basi spirituali, ha preso una prima decisione materiale: organizzare un corso di spiritualità "per intensificare la vita spirituale di due seminaristi che dovevano ordinarsi a breve".

Questa decisione ha portato al seminario di Tarazona nove allievi, che nel settembre 2005 hanno iniziato il corso di spiritualità.

La vita del seminario si è quindi organizzata nel triplice aspetto di disciplina, spiritualità e studi. "Faceva piacere vedere questi giovani camminare verso il sacerdozio", ha ricordato.

Attualmente, quattordici seminaristi si preparano al sacerdozio e studiano nel Centro universitario di studi teologici dell'Immacolata, dipendente dalla Facoltà di San Damaso di Madrid.

"Non ho cercato nessuno, sono stati circa 40 giovani a bussare alla nostra porta", sottolinea.

Il Vescovo ha anche ringraziato la Diocesi di Tarazona per "le preghiere, le elemosine e gli incoraggiamenti di ogni tipo", così come tante persone che hanno "assecondato questa intenzione del Vescovo".

"Tra le tribolazioni della vita pastorale, che non sono mancate, questo è stato il più bel dono di Dio in questi cinque anni per me, per la Diocesi, per la Chiesa", ha affermato monsignor Fernández, nominato di recente Vescovo di Córdoba, Diocesi che ha circa 50 seminaristi.

Cinque dei giovani entrati nel seminario di Tarazona negli ultimi cinque anni sono già stati ordiinati sacerdoti, e altri cinque saranno ordinati al termine del corso.

Altri cinque o sei diventeranno presbiteri tra un anno o poco più.

Fanno parte dei 1.265 seminaristi che si stanno formando nei seminari spagnoli in questo anno 2009-2010, 42 in più rispetto al corso precedente.

E' un numero incoraggiante in questo Anno Sacerdotale, visto che spezza la tendenza alla diminuzione del numero dei seminaristi che vigeva in Spagna da nove anni.

Dal canto suo, l'Arcivescovo di Valencia, monsignor Carlos Osoro, ha affermato nella sua lettera pastorale di domenica scorsa che il futuro delle vocazioni "dipende dalla qualità della testimonianza personale di tutti i cristiani".

"E' vero che la fecondità della proposta vocazionale dipende in primo luogo dall'azione gratuita di Dio", ha indicato, ma aiutano anche "la qualità e la ricchezza della testimonianza personale e comunitaria di tutti i cristiani".

Quest'anno, il tema della Giornata del Seminario scelto dalla Conferenza Episcopale Spagnola è "Il sacerdote, testimone della misericordia di Dio", con lo sfondo dell'Anno Sacerdotale e, soprattutto, della figura del Santo Curato d'Ars, San Giovanni Maria Vianney.

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Analisi


Messaggi pericolosi per i giovani
Un rapporto del Ministero dell'Interno britannico invita a difenderli

di padre John Flynn, LC


ROMA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- I messaggi e le immagini nei media, di natura sessuale e che incitano a comportamenti licenziosi, costituiscono una minaccia per i giovani, sostiene un rapporto pubblicato dal Ministero dell’Interno del Regno Unito.

L'Home Office britannico ha incaricato una psicologa indipendente, la dottoressa Linda Papadopoulos, di esaminare l’impatto derivante da una cultura altamente sessualizzata. L’iniziativa rientra nell’ambito della politica del Governo diretta a contenere i fenomeni di violenza contro le donne.

“Per cambiare i comportamenti ci vuole del tempo, ma è fondamentale se vogliamo arrestare la violenza contro le donne e le ragazze”, ha osservato il Ministro dell’Interno Alan Johnson nel comunicato stampa del 26 febbraio che accompagna il rapporto.

Sia il Partito laburista al Governo che il principale partito di opposizione, quello conservatore, sono preoccupati per l’impatto che la cultura contemporanea esercita sui giovani. Prima della pubblicazione del rapporto, il leader del Partito conservatore, David Cameron, si era detto favorevole ad una stretta sulle pubblicità irresponsabili destinate ai minori, secondo quanto riferito dalla BBC il 26 febbraio.

Nel rapporto, intitolato “Sexualization of Young People: Review”, la dottoressa Papadopoulos ha spiegato che la sua ricerca rientra nell’ambito di una consultazione finalizzata ad accrescere la consapevolezza sui problemi della violenza contro le donne e le ragazze. In particolare, la sua ricerca riguarda la questione del nesso tra una cultura sessualizzata e la violenza.

“Le donne sono apprezzate – e premiate – per i loro attributi fisici e, sia le ragazze, che i ragazzi, sin da un’età sempre più precoce, sono spinti a emulare gli stereotipi sessuali estremizzati”, osserva il rapporto.

Nello studio, la sessualizzazione è definita come “l’imposizione di una sessualità adulta sui bambini e sui giovani, prima che questi siano diventati capaci di gestirla, mentalmente, emotivamente o fisicamente”.

Come oggetti

L’uso di immagini sessuali nei media non è certamente un fenomeno recente, ammette il rapporto. Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo assistito a un inedito incremento nella loro frequenza. Inoltre, i bambini vengono oggi descritti più spesso secondo criteri adulti, mentre le donne vengono infantilizzate.

“Questo porta a un offuscamento del confine tra maturità e immaturità sessuale, con la conseguenza di una legittimazione dell’idea secondo cui i bambini possono essere considerati come oggetti sessuali”, sottolinea il testo.

Per quanto riguarda i bambini, una preoccupazione evidenziata nel rapporto è che a un’età precoce, le capacità cognitive necessarie a gestire adeguatamente le incalzanti immagini mediatiche non sono ancora sviluppate. In aggiunta a questa incapacità di gestire tali immagini, la natura pervasiva di una cultura sessualizzata implica che i bambini siano frequentemente esposti a contenuti che non sono appropriati per la loro età.

Il rapporto osserva che uno dei temi dominanti, nelle riviste più diffuse, è che le ragazze devono presentarsi in modo sessualmente attraente per essere apprezzate dai ragazzi. Questo è vero anche per i bambini, che vengono incoraggiati a vestirsi in modo da attirare l’attenzione su attributi sessuali che peraltro ancora non possiedono.

Per esempio, le bambole sono presentate in modo notevolmente sessualizzato. Oggetti come astucci per le matite o quaderni riportano il logo di Playboy. La biancheria intima opportunamente imbottita viene commercializzata e venduta anche a bambini di otto anni.

Per quanto riguarda i ragazzi, il messaggio predominante è che devono essere sessualmente dominanti e trattare il corpo femminile come un oggetto.

Nella televisione, nel cinema e nella musica, oltre che nella carta stampata, tutto dipinge i giovani secondo questo messaggio ipersessualizzato, osserva il rapporto.

Disordini

Una delle conseguenze che può derivare dalle continue pressioni sui giovani per conformarsi a tali immagini stereotipate è quella di una permanente insoddisfazione nei confronti del proprio corpo e di una scarsa autostima. A sua volta, questo può ingenerare forme di depressione e di disordine alimentare come l’anoressia. Ma le giovani donne stanno anche ricorrendo sempre più spesso alla chirurgia estetica, spinte dalla pressione a conformarsi a un immagine idealizzata.

I bambini e gli adolescenti sono esposti anche a un ingente volume di contenuti mediatici di natura esplicitamente sessuale o persino pornografica, aggiunge Papadopoulos. La facilità di accedere a Internet e di ricevere materiali via e-mail o sui telefoni cellulari, rende difficile contenere questo afflusso.

D’altra parte l’industria del sesso è ormai entrata nella grande diffusione ed è diventata parte integrante della cultura quotidiana, osserva il rapporto. Gli annunci di lavoro regolarmente comprendono anche quelli di agenzie di escort, di club di lap dance, di luoghi di prostituzione e di canali televisivi sessuali.

“Il fatto che, sia nella cultura popolare, che in quella delle celebrità, le donne sono normalmente apprezzate e celebrate per il loro sex appeal e il loro aspetto – con scarsi riferimento al loro intelletto o alle loro capacità – costituisce un potente messaggio per i giovani su cosa considerare di valore e su cosa doversi concentrare”, osserva il rapporto.

Come conseguenza di questo, molti giovani pubblicano nelle proprie pagine Web, foto esplicitamente sessuali di se stessi e usano spesso con i loro coetanei un linguaggio sprezzante e degradante, afferma il rapporto.

La sessualizzazione delle ragazze contribuisce anche ad alimentare il mercato della pedofilia, secondo il rapporto. Molte ragazze si espongono in evidenti pose sessualmente provocanti per farsi vedere dai propri coetanei attraverso i social network, le e-mail o i cellulari.

“Sono gli stessi giovani ora a produrre e a far circolare ciò che in effetti è ‘pornografia minorile’ – un fatto che emerge dal crescente numero di adolescenti condannati per possesso di questi materiali”, osserva il rapporto.

Violenze

Per quanto riguarda la correlazione tra sessualizzazione e violenza contro le donne, il rapporto cita una ricerca da cui risulta che gli adulti che fruiscono di immagini di donne trattate come oggetti sessuali sono più propensi ad accettare la violenza.

“Gli elementi raccolti in questo studio evidenziano un chiaro nesso tra il consumo di immagini sessuali, la tendenza a fruire di immagini di donne-oggetto e l’accettazione di atteggiamenti e comportamenti aggressivi come normali”, aggiunge il rapporto.

La dottoressa Papadopoulos richiama anche un recente sondaggio che mostra come, per molti giovani, la violenza all’interno di un rapporto è normale. Nel gruppo di età tra i 13 e i 17 anni, una ragazza su tre era stata costretta ad atti sessuali non voluti, nell’ambito di una relazione, mentre una su quattro aveva subito violenza fisica.

Dalla ricerca citata nel rapporto risulta anche che le pubblicità, nell’incoraggiare i maschi a considerare le donne principalmente come esseri sessuali, promuovono una mentalità in cui le donne sono considerate come subordinate e quindi come possibili obiettivi di violenza sessuale.

“L’immagine continuamente riproposta, dell’uomo dominante e aggressivo e della donna subordinata e degradata, verosimilmente continua ad alimentare le violenze contro le donne”, afferma il rapporto.

La rivolta

Il rapporto conclude facendo appello alle persone, perché prendano coscienza del fatto che la sessualizzazione è una questione di grande importanza, con pesanti conseguenze per gli individui, le famiglie e la società. Studi analoghi, svolti negli Stati Uniti e in Australia, sono giunti alle stesse conclusioni, sottolinea il rapporto, pur auspicando maggiori ricerche su questo fenomeno. Il rapporto termina con un elenco di 36 raccomandazioni su come gestire la sessualizzazione.

Oltre che in rapporti come questo, pubblicato di recente dal Ministero dell’Interno britannico, l’opposizione alla sessualizzazione della cultura contemporanea sta crescendo anche tra la gente comune.

Un esempio in questo senso viene dall’Australia, dove il sito Internet Collective Shout offre una piattaforma interattiva per persone o gruppi che vogliono adoperarsi contro le aziende e i media che promuovono la donna-oggetto e la sessualizzazione delle ragazze per vendere i loro prodotti e servizi.

In definitiva, la maggiore regolamentazione forse non serve a risolvere problemi come lo svilimento della sessualità. Ciò che sarebbe veramente necessario è un cambiamento nell’opinione pubblica, su larga scala, innescato da una rivolta contro lo sfruttamento della donna, da parte delle molte persone che sono stufe di dover accettare la continua degradazione della dignità umana.


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Italia


Credere Dio oggi
Incontri quaresimali alla Cattedra di San Giusto a Trieste

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il mondo moderno ha guardato a Dio come ad un intralcio mentre l’umano non può stare senza Dio e rinnova la sua incessante ricerca.

Lo ha spiegato monsignor Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste nel corso di una riflessione svolta il 3 marzo scorso presso la Basilica Cattedrale per l’avvio della Cattedra di San Giusto che propone una serie di incontri sul tema “Credere Deum”, “Credere Dio”.

Partendo dalla citazione n.78 dell’Enciclica Caritas in veritate in cui si afferma che "senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia”, monsignor Crepaldi ha ricordato che “veniamo da un lungo e tormentato periodo storico e culturale che ha preteso di emancipare e promuovere l’uomo e il suo sviluppo etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse”.

“Dio - ha rilevato - è stato visto non come un’opportunità di promozione umana, ma come un intralcio ad essa. Quasi tutta la stagione storico-culturale della modernità occidentale poggia su questo postulato: la vita dell’uomo si afferma dove e quando Dio muore”.

“Eppure - ha aggiunto l’Arcivescovo - non è necessario un grande sforzo di memoria per ricordare gli assetti politici che presero forma nel secolo cosiddetto breve dietro l’incalzare di ideologie nelle quali la negazione di Dio era un postulato essenziale e fondamentale della loro proposta”.

Facendo menzione degli orrori dei lager e dei gulag, monsignor Crepaldi ha quindi detto: “Come credente nel Dio della vita sento di dirvi che quel disastro fu provocato perché dall’orizzonte della storia era stato fatto sparire Dio. Senza Dio o contro Dio, l’uomo finisce per costruire contro se stesso”.

Secondo l’Arcivescovo di Trieste anche il “pensiero debole” e la secolarizzazione fanno di tutto per “togliere voce e presenza a Dio”.

Ma per monsignor Crepaldi “lontano da Dio, l'uomo è inquieto e malato” e l'alienazione sociale e psicologica e le tante nevrosi che caratterizzano le società opulente rimandano anche a cause di ordine spirituale.

Viviamo infatti “una società del benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente per l'anima, che non è di per sé orientata all'autentico sviluppo” e le tante forme di disperazioni in cui cadono tante persone “trovano una spiegazione non solo sociologica e psicologica, ma essenzialmente spirituale”.

Per rispondere alla domanda “Dio, oggi. Dio come risposta alle nostre domande, laceranti e inquietanti, circa il senso del vivere” monsignor Crepaldi ha raccontato tre esperienze di vita che lo hanno segnato.

La prima è relativa all’incontro con il Cardinale Francesco Xavier Van Thuan, che fu Presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, Vescovo di Saigon e martire vietnamita. Venne imprigionato per tredici anni dalla polizia comunista. Nove di quegli anni li passò in isolamento.

Van Thuan non aveva commesso nessun reato, non aveva nessuna colpa, l’unico motivo della sua detenzione era il suo essere un Vescovo cattolico.

Un giorno - ha raccontato monsignor Crepaldi - eravamo in macchina insieme e gli chiesi: “Eminenza, dove aveva trovato la forza per farcela?”. Mi rispose: “In Dio, perché Dio è tutto e perché è amore”.

Poi aggiunse: “Monsignore, spendersi per Dio che è amore è spendersi per la causa della civiltà dell’amore, quella della giustizia e della pace, quella che purifica tutti gli orrori del passato”.

Quella fu una grande e mirabile lezione di teologia – ha commentato l’Arcivescovo di Trieste - perchè “dalla riva della sua beata e sicura eternità Dio non si è accontentato di insegnare all’uomo la via della salvezza. Dio si è immerso nelle nostre acque travolgenti, ha condiviso la nostra condizione di disperati e votati alla morte, ha stretto a sé l’uomo, e lo ha trasportato sulla riva della sua eterna beatitudine”.

La seconda storia che monsignor Crepaldi ha raccontato è la storia di suo fratello Dante che era Down e morì a 50 anni senza dire mai una parola.

“Quando avevo 20 anni ed ero studente di teologia - ha ricordato l’Arcivescovo - ebbi una grande crisi di fede. Perché Dio non rispondeva alla mia domanda: ‘Perché, Signore, la sventura di questo mio fratello?”.

“Un giorno – ha continuato – eravamo in casa io e lui. Mia madre era fuori e sul tavolo c’era un Crocifisso e quasi per un’intuizione miracolosa vidi riflesso in quel Crocifisso il volto di mio fratello e quel Crocifisso lo vidi riflesso nel volto di Dante”.

“Quel giorno mio fratello mi regalò la bellezza di Dio, quando caddi piangendo in ginocchio di fronte al Crocifisso. E dopo mi sono domandato, come fa Sant’Anselmo, 'Cur Deus homo?', 'Perché Dio ti sei fatto uomo e crocifisso?'”.

L’Arcivescovo ha spiegato che “nell’uomo dei dolori, che si consegna alla morte nella sua atroce bruttezza sulla croce, è la bellezza della santità, la bellezza del dono di sé sino alla fine che risplende”.

“Capii – ha sostenuto l’Arcivescovo – che il Crocifisso è la bellezza che salva. Il suo volto sfigurato che perdona è per eccellenza la via della santità e allo stesso tempo la via della bellezza”.

L’ultima storia riguarda il figlio di un cugino di monsignor Crepaldi, un ragazzo ammalato a cui trapiantarono i reni.

Ogni mese doveva andare in ospedale per fare le analisi perché c’era il pericolo del rigetto. Lì incontrò una ragazza. Era rimasto piccolo; lei ancora più piccola e a 22 - 23 anni si innamorarono e poi si sposarono.

“Io non ho mai visto e non vedrò più un innamoramento così stupefacente”, ha esclamato monsignor Crepaldi. “Li ho preparati e ho celebrato il loro matrimonio, la fede che avevano: due occhi limpidi”.

“Finito il matrimonio sono venuti vicini e chiesi a loro – la mia era una domanda curiosa e legittima -: ‘Siete felici?’. E lei andando via si girò e mi diede una risposta che io avvertii come una specie di rimprovero e mi disse: 'Dio è felicità!'”.

“Io rimasi senza parole”, ha spiegato, perchè secondo un’idea diffusa, “la felicità non avrebbe nulla a che vedere con il cristianesimo, accusato di essere triste e di tendere tutt’al più ad un ideale di gravitas monastica, disprezzando i piaceri del corpo e le gioie della vita”.

A questo proposito monsignor Crepaldi ha precisato che “il modello delle beatitudini evangeliche è proprio un invito alla felicità, anche se ‘paradossale’, perché essa non è mai disgiunta dall’amore e dalla giustizia”.

“La felicità è, dunque, legata all’attesa, di un Altro e di un Altrove, di cieli nuovi e di terre nuove, in cui il male sarà vinto e la morte sconfitta. Ma di essa ci è offerto già qui, su questa terra, un anticipo e ci è data una prefigurazione. È una felicità promessa e, nello stesso tempo, esperienza già data”.

Per finire l’Arcivescovo di Trieste ha risposto che Dio oggi è presente “perché gli uomini e le donne del nostro tempo hanno un bisogno incommensurabile di amore, di bellezza e di felicità”.

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Vicariato di Roma: sosteniamo i "diritti irrinunciabili"
Nota del Vicariato di Roma sulle imminenti elezioni regionali
ROMA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- “Non è possibile equiparare qualunquisticamente tutti i progetti politici, perché non tutti incarnano i valori in cui crediamo”. E' quanto si legge in una nota del Vicariato di Roma dal titolo “Parole chiare” e riguardante le imminenti elezioni regionali, pubblicata il 14 marzo sul supplemento di Avvenire “Roma sette”.

“Né si possono concedere deleghe di rappresentanza politica a chi persegue altro progetto politico, che ci è estraneo e che non condividiamo - continua la nota -. E deploriamo ogni forma di propaganda elettorale, spacciata come sostenitrice della visione cattolica, ma che tale non è”.

“Il progetto politico che sosteniamo – si legge – considera diritti ‘irrinunciabili’, quanto al riconoscimento che all’esercizio effettivo, la libertà religiosa, la difesa della sacralità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, le libertà fondamentali della persona, la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, aperta alla maternità e paternità responsabile, la libertà educativa e di istruzione, il lavoro retribuito secondo giustizia, la cura della salute, l’apertura agli immigrati in un sistema di leggi che coniughi insieme accoglienza, legalità e sicurezza, la casa, la salvaguardia del creato”.

“In una parola, il bene comune che è tale solo se assicura l’insieme delle condizioni di vita sociale grazie alle quali i cittadini possono conseguire il loro perfezionamento”.

La nota spiega che la società a cui i cattolici aspirano ha un “chiodo fisso a cui appendere tutto, che è la dignità della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, e il suo sviluppo integrale, che - come insegna il Papa – ‘riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione”.

“Dunque – continua la nota - l’uomo considerato non solo nel suo essere terreno, ma nella prospettiva eterna, senza la quale «il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro», perché «chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell’avere»” (Caritas in veritate, 11).

“Questi – conclude infine - sono i diritti e valori umani e civili, che i cittadini cristiani - per i quali la fede non è un sentimento elastico che si modella a piacimento e ad ogni circostanza ma la ragione di senso e il fine della vita - intendono sostenere anche con il proprio voto”.



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Interviste


La Chiesa in Algeria lancia una nuova rivista
Intervista a Michel Guillaud, coordinatore dell'équipe di redazione

di Marine Soreau

ROMA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa in Algeria ha appena lanciato una nuova rivista interdiocesana. Dal titolo “Pax & Concordia”, ha l'obiettivo di “dar voce ai cristiani e ai loro amici – inclusi i musulmani –, per parlare del Paese, con dibattiti, riflessioni e attività” dei cristiani algerini, spiega Michel Guillaud, coordinatore dell'équipe di redazione.

Nell'editoriale del primo numero, monsignor Ghaleb Bader, Arcivescovo di Algeri, allude alla speranza che questa rivista, “oltre ad essere un segno di collaborazione, rinnovamento e unità”, sia soprattutto “il segno di una nuova speranza per la Chiesa in Algeria, capace di rinnovarsi e di aprire nuove porte nonostante le difficoltà che affronta quotidianamente”.

Michel Guillaud ha ricordato per ZENIT i “primi passi” della rivista interdiocesana.

Qual è stato il motivo del lancio di questa rivista?

Michel Guillaud: In Algeria ci sono quattro Diocesi: tre al nord (Orano, Algeri e Costantina-Ippona) e una per tutto il sud. Internamente, i cattolici dell'Algeria desideravano un maggiore dinamismo interdiocesano. Esternamente, volevano condividere ciò che vivono con i propri amici e le persone interessate alle relazioni islamo-cristiane.

L'équipe di redazione è molto modesta: una persona per ogni Diocesi, e si comunica via Internet. Ci si incontra fisicamente una volta per ogni edizione della rivista (io, ad esempio, ho bisogno di otto ore di viaggio per incontrare il membro più vicino della nostra équipe). Il nostro obiettivo è dare la parola ai cristiani e ai loro amici, inclusi i musulmani, parlare del Paese e delle nostre riflessioni.

Quali sono state le reazioni dei cristiani algerini?

Michel Guillaud: Le prime reazioni sono state all'inizio sulla forma, esprimendo la gioia di disporre di una rivista di qualità. Si è mostrato anche grande interesse per gli argomenti, per il fatto di poter andare al di là di una semplice condivisione di notizie e di permettere riflessione e formazione.

Nel suo editoriale, monsignor Ghaleb Bader parla di “rinnovamento”. Si può notare un rinnovamento nella Chiesa d'Algeria nonostante le persistenti difficoltà?

Michel Guillaud: La Chiesa è caratterizzata dall'importante presenza dei giovani dell'Africa subsahariana, a cui l'Algeria offre borse di studio, e anche dai migranti che vogliono venire al nord. E' una Chiesa giovane, e nel Paese ci sono molti giovani cristiani, di varie denominazioni.

Che cosa si può dire della libertà religiosa in Algeria?

Michel Guillaud: L'interesse espresso da un certo numero di algerini per camminare con Cristo segna profondamente la nostra Chiesa. Su questo, l'Algeria è probabilmente lo Stato arabo-musulmano più rispettato per la sua libertà, anche se ciò si ripercuote profondamente sulla società e risveglia, a volte, nel popolo o nella stampa reazioni anche violente.

Tutte le conquiste hanno come sfondo la coscienza e la volontà molto viva nella Chiesa cattolica, per il fatto di essere una Chiesa per l'Algeria, per tutti gli algerini, e si potrebbe quasi dire “per l'islam”. E' una risposta a una vocazione specifica per la relazione islamo-cristiana che la caratterizza in modo completo e radicale. La sfida va molto al di là di un desiderio di buon vicinato o di servizio comune per i poveri, la pace o la giustizia. Si tratta di una testimonianza differenziata, ma armoniosa, del cristianesimo e dell'islam nel mondo.

“Pax & Concordia” vuole essere al servizio di questo con la Chiesa in Algeria. Il nome della rivista deriva da un mosaico trovato a Tipasa, un'antica località romana situata a 60 chilometri da Algeri, che riporta l'iscrizione: “In Deo, pax et concordia sit convivio nostro” (In Dio, la pace e la concordia regnino nel nostro convivio).

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Forum


Aborto in Europa: una guerra da vincere

di Stefano Fontana*

ROMA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- L’aborto in Europa ormai impressiona sia per le cifre, sia per le tendenze in atto, sia per l’impatto sociale e politico del fenomeno. Né la società né le istituzioni possono rimanere indifferenti.

La si può pensare in mille modi sulla vita e la morte, ma davanti a queste cifre e a queste modalità nessuno può nascondersi dietro vecchi slogan e battaglie di bandiera. Stiamo perdendo tutti la guerra perché se la vita non ha ragioni, chi mai potrà più avere ragione?

I dati forniti dall’Instituto de Politica Familiar di Madrid nel suo periodico “Rapporto sull’aborto in Europa” impressionano sia come cifre assolute, sia per le tendenze sociali di cui sono sintomo. Una gravidanza su cinque termina con l’aborto.

Nell’Unione Europa a 27 (UE27) negli ultimi 15 anni non sono nati a causa dell’aborto 20 milioni di bambini. E’ come se fosse sparita l’intera popolazione della Romania o dell’Olanda.

Nell’intera Europa ogni anno non nascono circa 3 milioni di bambini, una cifra pari alla popolazione di Estonia, Cipro, Lussemburgo e Malta messe insieme.

L’aborto è la prima causa di mortalità in Europa. Nella UE27 il numero degli aborti è pari al deficit di natalità: senza l’aborto sarebbe garantito il ricambio generazionale. In dodici giorni muoiono più feti che persone per incidente stratale in un intero anno. Il panorama è desolato e desolante.

Il 63 per cento degli aborti dell’UE27 avvengono nei paesi dell’Europa a 15 (UE15) ossia nei paesi del benessere. Mentre in questi gli aborti sono aumentati, nei paesi dell’allargamento a 27 sono diminuiti. Romania, Francia e Regno Unito hanno avuto il maggior numero di aborti nel periodo 1994-2008, però mentre la Romania ha segnalato un vistoso calo, così non è stato per gli altri due.

Nei paesi dell’allargamento il miglioramento delle condizioni di vita ha frenato l’aborto, mentre nei paesi più sviluppati la cultura del benessere li ha fatti aumentare. In questi ultimi il problema è prima di tutto culturale ed educativo.

Ed infatti sta scoppiando il caso degli aborti di ragazze adolescenti. Il Regno Unito è il paese di punta: nel 2008 sono stati 45 mila gli aborti realizzati da adolescenti (170 mila nella UE27). Il tema dell’aborto si collega quindi con il nichilismo dei paesi sviluppati, che è un fenomeno culturale e non economico, e con una generazione di teenagers fuori controllo.

Si collega anche con l’inverno demografico e con un continente stanco di futuro. Senza l’aborto avremmo in Europa 10 milioni e mezzo di giovani in più, di speranze e dinamismo, di idee nuove e entusiasmo.

Dentro questo quadro fa impressione il dato spagnolo. Qui gli aborti son aumentati del 115 per cento annuo, pari ad un incremento di quasi 70 mila ogni anno. Dal 1985 si cono accumulati 1 milione e 350 mila aborti.

E’ grazie alla Spagna, balzata all’improvviso al quinto posto in Europa, che l’UE15 mantiene alti i propri tassi di interruzione della gravidanza. I dati dimostrano che in Spagna l’aborto è adoperato come sistema anticoncezionale: le donne che hanno abortito più di 5 volte è aumentato del 213 per cento negli ultimi 10 anni. Anche in Spagna, come avviene in Inghilterra con le adolescenti, l’aborto è sempre più banalizzato.

Secondo l’IPF la recente legge farà aumentare ulteriormente il ricorso all’aborto: sarà permesso già dai 16 anni, sarà libero fino alla 14 settimana con estensione fino alla 22ma in caso di supposti rischi, si restringe l’obiezione di coscienza, si lancerà una istruzione capillare nelle scuole improntate alla ideologia del gender e della salute riproduttiva.

Le proiezioni dicono che nel 2015 si supereranno in Spagna i 115 mila aborti, in controtendenza rispetto all’UE27 ove complessivamente gli aborti sono in diminuzione.

Oggi l’aborto è ancora illegale solo in Irlanda e a Malta. In 14 paesi la legge lo prevede in presenza di determinate circostanze. In 11 paesi si può abortire senza restrizioni. Il 30 per cento dei paesi dell’UE27 non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza In metà paesi è previsto un periodo di riflessione per la donna, in un’altra metà nemmeno.

Le proposte dell’IPF davanti a questa situazione sono molteplici. Vanno dalla riduzione dell’Iva per i pannolini alla costituzione di Centri di aiuto alla vita per madri in gravidanza.

Tra i più interessanti si segnalano l’Istituzione di un Libro Verde sulla natalità in Europa, la realizzazione nei diversi paesi di un Piano nazionale sulla natalità, una riunione urgente dei Ministri della famiglia e soprattutto un appello alla società civile, dato che le azioni dei governi sembrano molto deficitarie, quando non addirittura fallimentari.

Una cosa è certa: bisogna ricominciare.

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*Stefano Fontana è direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa (http://www.vanthuanobservatory.org).

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La televisione è uno strumento neutro?

di Carlo Bellieni*

ROMA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- La televisione è uno strumento neutro? Proprio no! E’ bene uscire dal dubbio: non si tratta di un giudizio religioso o filosofico, ma di difendere il diritto alla privacy. Sembra un assurdo: la privacy è in pericolo quando qualcuno ti spia, come avveniva nel famoso 1984 di G Orwell o in Fahreneit 451 di R Bradbury, e la TV non ci spia di certo, tant’è che “Il grande fratello” oggi è un format inoffensivo, e non l’occhio che penetra nelle case a frugare i pensieri dei cittadini.

Ma è proprio così? In realtà la televisione ha un unico difetto: c’è. Sta lì. E’ una parte dell’arredamento del salotto e di tante altre stanze. E’ indispensabile. Non è indispensabile come strumento di informazione o di svago. E’ indispensabile come oggetto. Ognuno sa dov’è in casa propria, spesso con maggior certezza che dove si trova un certo tavolo o un certo quadro. E’ il centro dell’attività della casa, perché spesso ne è il sottofondo sonoro, è quello che i bambini guardano appena si svegliano e hanno gli occhi ancora semichiusi, o quello con cui tanti adulti si addormentano.

E’ una compagnia per tante persone sole, e una baby-sitter perfetta. Ma è ipnotica; dà crisi d’astinenza, influenza l’attività elettrica del cervello. Ha una capacità di attrazione tale da non far sentire il dolore di una puntura, cosa che abbiamo noi stessi dimostrato scientificamente pochi anni or sono. E soprattutto: c’è. E’ lì. E’ una certezza. Telefilm grossolani e violenza gratuita non sono nulla in confronto a questo starci, a questo campeggiare come un trofeo o un’urna di un santo.

“E allora?”, qualcuno dirà “Ma qual è il problema?” Risposta: semplicemente che c’è lei e non c’è altro. La TV sarebbe neutra in un mondo ideale, dove i genitori fanno i genitori, sono presenti; dove quando i bambini si svegliano possono guardare il sole che sorge o la nebbia o fare quattro chiacchiere; dove quando si torna a casa c’è un tavolo intorno cui fare una partita a tressette o un bar dove parlare di caccia, pesca e figli. Ma tutto questo non c’è. E la televisione campeggia col flusso di parole di cui non possiamo far a meno pur non ascoltandole e non scegliendole.

Ascoltiamo e vediamo tutto: la prima cosa che capita pur di “rilassarci”. E anche le trasmissioni “intelligenti” e “utili” crollano d’intelligenza e perdono d’utilità proprio perché sfruttano la nostra resa. E’ forte la TV, altro che dire: “Tanto comando io perché ho il telecomando!”. Non è vero: la TV lo strappa di mano, con i colori forti e le musiche caotiche, con i TG strillati e la sensualità ostentata. Noi non scegliamo niente: è la TV che sceglie, anzi “scioglie” noi.

Se è sera, provate a fare il conto di quante trasmissioni o tratti di trasmissioni avete visto senza che aveste programmato di vederle: tante. E nemmeno ci ricordiamo quante e quali fossero, perché passano via come l’acqua del torrente sui ciottoli della nostra stanchezza; ma come l’acqua non passano senza lasciare traccia: smussano e arrotondano i nostri riflessi e le nostre forze. Distruggendo anche le dighe forti: i linguaggi dialettali, le idee politiche, la diffidenza verso il mondo dei consumi.

La TV ci fa sembrare indispensabile quello che ieri nemmeno sapevamo che esisteva, ci fa vedere e rivedere i volti dei politici, i gol dei calciatori o le scatole di cioccolatini e ce ne droga. Ma è anche paritaria: la censura sull’apparire di disabili in TV ci fa pensare proprio di no! In Inghilterra ci hanno provato con una giornalista senza un braccio e le “brave e pie mamme” si sono ribellate perché “poteva spaventare i bambini”.

La TV è politicamente corretta: annienta il nemico, appiattisce tutto. E sta lì. Al centro. Non ci guarda, come pensava Orwell, ma noi ci sentiamo osservati e frugati. E facciamo, mangiamo, compriamo, amiamo quello che vuole lei. Quanti di noi conoscono più le note delle pubblicità televisive che le parole del proprio inno nazionale? Quanti bambini restano affascinati a sentire pubblicità impossibili di famiglie che passano il loro tempo a parlare di quanti cereali ci sono nei loro biscotti o di quanta tenerezza c’è nella loro carta igienica o nei loro assorbenti intimi? Ma, lo ripeto, non si tratta di quello che trasmette, ma del fatto che c’è, che è un must. Insomma, non possiamo non dirci teleutenti.

Nota bene: questo che sembra un discorso di colore, ha una sua morale: attenti a fare le guerre sui problemi di frontiera (clonazione, chimere, testamenti…) e pensare che la vera guerra sia lì, quando il nemico ha già conquistato tutto il nostro mondo (mentale). La vera guerra è nel nostro cervello: tra usarlo e vivere di routine. L’esempio della TV è uno su mille, ma può essere un’efficace sveglia.

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* Il dottor Carlo Bellieni è Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

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Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Gioventù 2010
"Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?"
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio che Benedetto XVI ha inviato ai giovani e alle giovani del mondo, in occasione della XXV Giornata Mondiale della Gioventù che sarà celebrata il 28 marzo 2010, Domenica delle Palme, a livello diocesano.




* * *

"Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?" (Mc 10,17)

Cari amici,

ricorre quest’anno il venticinquesimo anniversario di istituzione della Giornata Mondiale della Gioventù, voluta dal Venerabile Giovanni Paolo II come appuntamento annuale dei giovani credenti del mondo intero. Fu una iniziativa profetica che ha portato frutti abbondanti, permettendo alle nuove generazioni cristiane di incontrarsi, di mettersi in ascolto della Parola di Dio, di scoprire la bellezza della Chiesa e di vivere esperienze forti di fede che hanno portato molti alla decisione di donarsi totalmente a Cristo.

La presente XXV Giornata rappresenta una tappa verso il prossimo Incontro Mondiale dei giovani, che avrà luogo nell'agosto 2011 a Madrid, dove spero sarete numerosi a vivere questo evento di grazia.

Per prepararci a tale celebrazione, vorrei proporvi alcune riflessioni sul tema di quest’anno: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?" (Mc 10,17), tratto dall’episodio evangelico dell'incontro di Gesù con il giovane ricco; un tema già affrontato, nel 1985, dal Papa Giovanni Paolo II in una bellissima Lettera, diretta per la prima volta ai giovani.

1. Gesù incontra un giovane

"Mentre [Gesù] andava per la strada, – racconta il Vangelo di San Marco - un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni" (Mc 10, 17-22).

Questo racconto esprime in maniera efficace la grande attenzione di Gesù verso i giovani, verso di voi, verso le vostre attese, le vostre speranze, e mostra quanto sia grande il suo desiderio di incontrarvi personalmente e di aprire un dialogo con ciascuno di voi. Cristo, infatti, interrompe il suo cammino per rispondere alla domanda del suo interlocutore, manifestando piena disponibilità verso quel giovane, che è mosso da un ardente desiderio di parlare con il «Maestro buono», per imparare da Lui a percorrere la strada della vita. Con questo brano evangelico, il mio Predecessore voleva esortare ciascuno di voi a "sviluppare il proprio colloquio con Cristo - un colloquio che è d'importanza fondamentale ed essenziale per un giovane" (Lettera ai giovani, n. 2).

2. Gesù lo guardò e lo amò

Nel racconto evangelico, San Marco sottolinea come "Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò" (cfr Mc 10,21). Nello sguardo del Signore c’è il cuore di questo specialissimo incontro e di tutta l’esperienza cristiana. Infatti il cristianesimo non è primariamente una morale, ma esperienza di Gesù Cristo, che ci ama personalmente, giovani o vecchi, poveri o ricchi; ci ama anche quando gli voltiamo le spalle.

Commentando la scena, il Papa Giovanni Paolo II aggiungeva, rivolto a voi giovani: "Vi auguro di sperimentare uno sguardo così! Vi auguro di sperimentare la verità che egli, il Cristo, vi guarda con amore!" (Lettera ai giovani, n. 7). Un amore, manifestatosi sulla Croce in maniera così piena e totale, che fa scrivere a san Paolo, con stupore: "Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me" (Gal 2,20). "La consapevolezza che il Padre ci ha da sempre amati nel suo Figlio, che il Cristo ama ognuno e sempre – scrive ancora il Papa Giovanni Paolo II -, diventa un fermo punto di sostegno per tutta la nostra esistenza umana" (Lettera ai giovani, n. 7), e ci permette di superare tutte le prove: la scoperta dei nostri peccati, la sofferenza, lo scoraggiamento.

In questo amore si trova la sorgente di tutta la vita cristiana e la ragione fondamentale dell'evangelizzazione: se abbiamo veramente incontrato Gesù, non possiamo fare a meno di testimoniarlo a coloro che non hanno ancora incrociato il suo sguardo!

3. La scoperta del progetto di vita

Nel giovane del Vangelo, possiamo scorgere una condizione molto simile a quella di ciascuno di voi. Anche voi siete ricchi di qualità, di energie, di sogni, di speranze: risorse che possedete in abbondanza! La stessa vostra età costituisce una grande ricchezza non soltanto per voi, ma anche per gli altri, per la Chiesa e per il mondo.

Il giovane ricco chiede a Gesù: "Che cosa devo fare?". La stagione della vita in cui siete immersi è tempo di scoperta: dei doni che Dio vi ha elargito e delle vostre responsabilità. E’, altresì, tempo di scelte fondamentali per costruire il vostro progetto di vita. E’ il momento, quindi, di interrogarvi sul senso autentico dell’esistenza e di domandarvi: "Sono soddisfatto della mia vita? C'è qualcosa che manca?".

Come il giovane del Vangelo, forse anche voi vivete situazioni di instabilità, di turbamento o di sofferenza, che vi portano ad aspirare ad una vita non mediocre e a chiedervi: in che consiste una vita riuscita? Che cosa devo fare? Quale potrebbe essere il mio progetto di vita? "Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore e pieno senso?" (Ibid., n. 3).

Non abbiate paura di affrontare queste domande! Lontano dal sopraffarvi, esse esprimono le grandi aspirazioni, che sono presenti nel vostro cuore. Pertanto, vanno ascoltate. Esse attendono risposte non superficiali, ma capaci di soddisfare le vostre autentiche attese di vita e di felicità.

Per scoprire il progetto di vita che può rendervi pienamente felici, mettetevi in ascolto di Dio, che ha un suo disegno di amore su ciascuno di voi. Con fiducia, chiedetegli: "Signore, qual è il tuo disegno di Creatore e Padre sulla mia vita? Qual è la tua volontà? Io desidero compierla". Siate certi che vi risponderà. Non abbiate paura della sua risposta! "Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa" (1Gv 3,20)!

4. Vieni e seguimi!

Gesù, invita il giovane ricco ad andare ben al di là della soddisfazione delle sue aspirazioni e dei suoi progetti personali, gli dice: "Vieni e seguimi!". La vocazione cristiana scaturisce da una proposta d’amore del Signore e può realizzarsi solo grazie a una risposta d’amore: "Gesù invita i suoi discepoli al dono totale della loro vita, senza calcolo e tornaconto umano, con una fiducia senza riserve in Dio. I santi accolgono quest'invito esigente, e si mettono con umile docilità alla sequela di Cristo crocifisso e risorto. La loro perfezione, nella logica della fede talora umanamente incomprensibile, consiste nel non mettere più al centro se stessi, ma nello scegliere di andare controcorrente vivendo secondo il Vangelo" (Benedetto XVI, Omelia in occasione delle Canonizzazioni: L’Osservatore Romano, 12-13 ottobre 2009, p. 6).

Sull’esempio di tanti discepoli di Cristo, anche voi, cari amici, accogliete con gioia l’invito alla sequela, per vivere intensamente e con frutto in questo mondo. Con il Battesimo, infatti, egli chiama ciascuno a seguirlo con azioni concrete, ad amarlo sopra ogni cosa e a servirlo nei fratelli. Il giovane ricco, purtroppo, non accolse l’invito di Gesù e se ne andò rattristato. Non aveva trovato il coraggio di distaccarsi dai beni materiali per trovare il bene più grande proposto da Gesù.

La tristezza del giovane ricco del Vangelo è quella che nasce nel cuore di ciascuno quando non si ha il coraggio di seguire Cristo, di compiere la scelta giusta. Ma non è mai troppo tardi per rispondergli!

Gesù non si stanca mai di volgere il suo sguardo di amore e chiamare ad essere suoi discepoli, ma Egli propone ad alcuni una scelta più radicale. In quest'Anno Sacerdotale, vorrei esortare i giovani e i ragazzi ad essere attenti se il Signore invita ad un dono più grande, nella via del Sacerdozio ministeriale, e a rendersi disponibili ad accogliere con generosità ed entusiasmo questo segno di speciale predilezione, intraprendendo con un sacerdote, con il direttore spirituale il necessario cammino di discernimento. Non abbiate paura, poi, cari giovani e care giovani, se il Signore vi chiama alla vita religiosa, monastica, missionaria o di speciale consacrazione: Egli sa donare gioia profonda a chi risponde con coraggio!

Invito, inoltre, quanti sentono la vocazione al matrimonio ad accoglierla con fede, impegnandosi a porre basi solide per vivere un amore grande, fedele e aperto al dono della vita, che è ricchezza e grazia per la società e per la Chiesa.

5. Orientati verso la vita eterna

"Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?". Questa domanda del giovane del Vangelo appare lontana dalle preoccupazioni di molti giovani contemporanei, poiché, come osservava il mio Predecessore, "non siamo noi la generazione, alla quale il mondo e il progresso temporale riempiono completamente l'orizzonte dell'esistenza?" (Lettera ai giovani, n. 5). Ma la domanda sulla "vita eterna" affiora in particolari momenti dolorosi dell’esistenza, quando subiamo la perdita di una persona vicina o quando viviamo l’esperienza dell’insuccesso.

Ma cos’è la "vita eterna" cui si riferisce il giovane ricco? Ce lo illustra Gesù, quando, rivolto ai suoi discepoli, afferma: "Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia" (Gv 16,22). Sono parole che indicano una proposta esaltante di felicità senza fine, della gioia di essere colmati dall'amore divino per sempre.

Interrogarsi sul futuro definitivo che attende ciascuno di noi dà senso pieno all’esistenza, poiché orienta il progetto di vita verso orizzonti non limitati e passeggeri, ma ampi e profondi, che portano ad amare il mondo, da Dio stesso tanto amato, a dedicarci al suo sviluppo, ma sempre con la libertà e la gioia che nascono dalla fede e dalla speranza. Sono orizzonti che aiutano a non assolutizzare le realtà terrene, sentendo che Dio ci prepara una prospettiva più grande, e a ripetere con Sant’Agostino: "Desideriamo insieme la patria celeste, sospiriamo verso la patria celeste, sentiamoci pellegrini quaggiù" (Commento al Vangelo di San Giovanni, Omelia 35, 9). Tenendo fisso lo sguardo alla vita eterna, il Beato Pier Giorgio Frassati, morto nel 1925 all'età di 24 anni, diceva: "Voglio vivere e non vivacchiare!" e sulla foto di una scalata, inviata ad un amico, scriveva: "Verso l’alto", alludendo alla perfezione cristiana, ma anche alla vita eterna.

Cari giovani, vi esorto a non dimenticare questa prospettiva nel vostro progetto di vita: siamo chiamati all’eternità. Dio ci ha creati per stare con Lui, per sempre. Essa vi aiuterà a dare un senso pieno alle vostre scelte e a dare qualità alla vostra esistenza.

6. I comandamenti, via dell'amore autentico

Gesù ricorda al giovane ricco i dieci comandamenti, come condizioni necessarie per "avere in eredità la vita eterna". Essi sono punti di riferimento essenziali per vivere nell’amore, per distinguere chiaramente il bene dal male e costruire un progetto di vita solido e duraturo. Anche a voi, Gesù chiede se conoscete i comandamenti, se vi preoccupate di formare la vostra coscienza secondo la legge divina e se li mettete in pratica.

Certo, si tratta di domande controcorrente rispetto alla mentalità attuale, che propone una libertà svincolata da valori, da regole, da norme oggettive e invita a rifiutare ogni limite ai desideri del momento. Ma questo tipo di proposta invece di condurre alla vera libertà, porta l'uomo a diventare schiavo di se stesso, dei suoi desideri immediati, degli idoli come il potere, il denaro, il piacere sfrenato e le seduzioni del mondo, rendendolo incapace di seguire la sua nativa vocazione all'amore.

Dio ci dà i comandamenti perché ci vuole educare alla vera libertà, perché vuole costruire con noi un Regno di amore, di giustizia e di pace. Ascoltarli e metterli in pratica non significa alienarsi, ma trovare il cammino della libertà e dell'amore autentici, perché i comandamenti non limitano la felicità, ma indicano come trovarla. Gesù all'inizio del dialogo con il giovane ricco, ricorda che la legge data da Dio è buona, perché "Dio è buono".

7. Abbiamo bisogno di voi

Chi vive oggi la condizione giovanile si trova ad affrontare molti problemi derivanti dalla disoccupazione, dalla mancanza di riferimenti ideali certi e di prospettive concrete per il futuro. Talora si può avere l'impressione di essere impotenti di fronte alle crisi e alle derive attuali. Nonostante le difficoltà, non lasciatevi scoraggiare e non rinunciate ai vostri sogni! Coltivate invece nel cuore desideri grandi di fraternità, di giustizia e di pace. Il futuro è nelle mani di chi sa cercare e trovare ragioni forti di vita e di speranza. Se vorrete, il futuro è nelle vostre mani, perché i doni e le ricchezze che il Signore ha rinchiuso nel cuore di ciascuno di voi, plasmati dall’incontro con Cristo, possono recare autentica speranza al mondo! È la fede nel suo amore che, rendendovi forti e generosi, vi darà il coraggio di affrontare con serenità il cammino della vita ed assumere responsabilità familiari e professionali. Impegnatevi a costruire il vostro futuro attraverso percorsi seri di formazione personale e di studio, per servire in maniera competente e generosa il bene comune.

Nella mia recente Lettera enciclica sullo sviluppo umano integrale, Caritas in veritate, ho elencato alcune grandi sfide attuali, che sono urgenti ed essenziali per la vita di questo mondo: l'uso delle risorse della terra e il rispetto dell'ecologia, la giusta divisione dei beni e il controllo dei meccanismi finanziari, la solidarietà con i Paesi poveri nell'ambito della famiglia umana, la lotta contro la fame nel mondo, la promozione della dignità del lavoro umano, il servizio alla cultura della vita, la costruzione della pace tra i popoli, il dialogo interreligioso, il buon uso dei mezzi di comunicazione sociale.

Sono sfide alle quali siete chiamati a rispondere per costruire un mondo più giusto e fraterno. Sono sfide che chiedono un progetto di vita esigente ed appassionante, nel quale mettere tutta la vostra ricchezza secondo il disegno che Dio ha su ciascuno di voi. Non si tratta di compiere gesti eroici né straordinari, ma di agire mettendo a frutto i propri talenti e le proprie possibilità, impegnandosi a progredire costantemente nella fede e nell'amore.

In quest'Anno Sacerdotale, vi invito a conoscere la vita dei santi, in particolare quella dei santi sacerdoti. Vedrete che Dio li ha guidati e che hanno trovato la loro strada giorno dopo giorno, proprio nella fede, nella speranza e nell'amore. Cristo chiama ciascuno di voi a impegnarsi con Lui e ad assumersi le proprie responsabilità per costruire la civiltà dell’amore. Se seguirete la sua Parola, anche la vostra strada si illuminerà e vi condurrà a traguardi alti, che danno gioia e senso pieno alla vita.

Che la Vergine Maria, Madre della Chiesa, vi accompagni con la sua protezione. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e con grande affetto vi benedico.

Dal Vaticano, 22 Febbraio 2010

BENEDICTUS PP. XVI

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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