martedì 27 maggio 2008

Ezio Mauro: il ruolo pubblico della fede è «la grande questione della contemporaneità», Ezio Mauro, Il sussidiario

Discutere della presenza della Chiesa nella società contemporanea, e nel dibattito politico-culturale che la anima, non è, come più volte si è detto, questione clericale. Non riguarda cioè solo problemi interni alla Chiesa. È una questione di interesse pubblico: anzi, come dice il direttore del quotidiano La Repubblica Ezio Mauro intervistato da ilsussidiario.net, «è la grande questione della contemporaneità». Affermazione che sembra riprendere la frase dello storico Michael Burleigh, posta dal Cardinal Angelo Scola a epigrafe del proprio volume Una nuova laicità: «il mix religione e politica sarà il tema dei prossimi cinquant'anni». Ed è un tema che, ancora una volta, merita di essere affrontato e approfondito nell'interesse di tutti.

Direttore, prendiamo le mosse da un dato storico-culturale: la Chiesa in epoca moderna, come ha sottolineato in un suo precedente intervento per ilsussidiario.net Mons. Luigi Negri, ha sempre cercato di arginare il tentativo da parte dello Stato di intervenire con nuove leggi in quell'ambito che sommariamente potremmo definire "coscienza personale". Questa è a suo avviso un'ingerenza da parte della Chiesa o una rivendicazione di una legittima libertà?

Non è ingerenza sostenere un'opinione da parte di una presenza importante per la società italiana come la Chiesa. Ma bisogna chiarire un punto. In democrazia, tutte le verità sono parziali, perché non esiste una riserva superiore di Verità - con la maiuscola - esterna al confronto democratico. Nemmeno esiste, e va ricordato, una qualsiasi forma di obbligazione religiosa a fondamento delle leggi della Repubblica. Questo vincolo non c'è. Nessuna materia è esclusa per principio dalla potestà del legislatore, e dunque dalla regola della maggioranza nel Parlamento che decide. La libertà è anche quella della Repubblica, con le sue istituzioni, che sono e devono essere autonome.

Benedetto XVI nel suo recente viaggio negli Stati Uniti ha ribadito a più riprese l'insussistenza della dicotomia tra fede e politica: condivide questa posizione? E in che modo secondo lei si può definire il ruolo pubblico della fede?

È la grande questione della contemporaneità. La religione chiede di prendere parte al discorso pubblico, cioè al formarsi e al divenire della vicenda civile, culturale e politica (in senso largo) del Paese. Chiede cioè di entrare a pieno titolo in quel circuito di valori, interessi, tradizione e culture nel quale si forma e si trasforma il senso comune di una nazione e nasce la pubblica opinione. In realtà, ciò che la Chiesa chiede lo ha già ottenuto. Tutti abbiamo capito che sbagliavamo quando pensavamo, sul finire del secolo, che la fede fosse confinata nella dimensione privata, individuale e intima delle persone, e contasse singolarmente soltanto per ognuna di loro. Oggi è evidente che le religioni hanno riconquistato un nuovo significato politico, come dice Habermas, e sono attori della "sfera pubblica". Ma nel passaggio dall'individuo alla collettività, la religione non parla solo ai credenti, parla anche ai cittadini, e ritiene che il suo messaggio non valga solo per l'anima dei fedeli ma per il corpo sociale nel suo insieme, perché costitutivo di un'identità collettiva basata sulla ricerca di un senso morale per l'esistenza. Lo spazio pubblico ha però una regola che lo disciplina, ed è la regola della democrazia. E la democrazia amministra il peso e il ruolo di ogni soggetto con il computo della maggioranza, senza distinguere tra Verità e verità, tra dogmi e ideologie, tra magistero e leadership, tra la vita eterna e lo spazio di una legislatura. La democrazia non contempla l'Assoluto e nel suo spazio - istituzionale, parlamentare - tutte le verità sono relative. Da qui la domanda: la Chiesa accetta di farsi "parte" davanti allo Stato, di andare in minoranza con i suoi valori assoluti nel libero gioco democratico?

La Chiesa insiste spesso sulla differenziazione tra il concetto di «laicità» e quello, estremo e inaccettabile per la Chiesa stessa, di «laicismo»: esiste secondo lei questa distinzione? E su cosa si fonda?

Il laicismo mi pare uno dei tanti ideologismi, cioè l'irrigidimento dogmatico di una posizione culturale, a fini di una battaglia di posizione, o di una battaglia politica. La laicità è il riconoscimento del libero ruolo della religione nella formazione della coscienza del credente e anche nella coscienza civile collettiva, sapendo che le istituzioni statali sono autonome, fuori da ogni vincolo, e la scelta politica in quanto tale (compresa la decisione parlamentare) è demandata all'autonoma decisione di chi opera in politica, credente o non credente, sotto la sua responsabilità e nella sua libertà.

La convergenza tra cattolicesimo democratico e sinistra è stata a lungo la cifra dominante dell'impegno politico dei cattolici, basata sull'accordo riguardo a temi sociali. Ora quei temi sembrano essere passati in secondo piano (soprattutto rispetto a temi etici): questo secondo lei può minare le fondamenta di quella storica convergenza?

No, tanto che nel partito democratico noi vediamo uniti in un progetto politico più ampio delle sole politiche sociali i cattolici democratici e gli eredi del comunismo italiano. Io credo che la cultura cattolico democratica, demonizzata a torto dalla destra e svalutata da molti cattolici, sia una cultura costituente, che ha contribuito a mettere le basi della nostra Repubblica, e una cultura istituzionale, che si è posta il tema del compimento della nostra democrazia. Dunque qualcosa di utile per tutto il sistema, ben al di là della categoria del "cattocomunismo" in cui è stata rimpicciolita polemicamente. E ingiustamente.

Il sussidiario
Ezio Mauro

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