domenica 25 maggio 2008

«I parlamentari dovranno lavorare di più»! Il presidente di Montecitorio, Fini: le Camere siano operative dal lunedì al venerdì, non tre giorni alla settimana

«I parlamentari dovranno lavorare di più»

Il presidente di Montecitorio, Fini: le Camere siano operative dal lunedì al venerdì, non tre giorni alla settimana

Il presidente della Camera, Gianfranco Fini (Lapresse)
ROMA — «L'Italia è stata per decenni avvolta nella melassa del compromesso a tutti i costi, della non decisione. Oggi non è più così. Berlusconi ha capito benissimo che si governa assumendosi la responsabilità delle decisioni. Anche dolorose. Il Pd di Veltroni ha capito a sua volta perfettamente che è stata ormai superata la soglia oltre la quale la non decisione delegittima tutti, chi governa e chi sta all'opposizione, il Parlamento come il resto delle istituzioni. E da questo nuovo clima ritengo, anche per l'esistenza di almeno due condizioni concrete, che possa scaturire veramente una legislatura costituente, capace di dare un nuovo volto all'assetto del nostro Stato».

Detto questo, per il presidente della Camera, esiste almeno un rischio da evitare: il dialogo fra maggioranza e opposizione «non deve diventare consociativismo, scadere nell'inciucio, evitare il corto circuito fra due livelli che devono restare distinti, l'azione di governo e il dialogo istituzionale». Perché viceversa «dovremmo fronteggiare due errori speculari: la tentazione di ritenersi autosufficienti, anche sulle riforme, da parte del centrodestra; quello di confondere la battaglia sui singoli provvedimenti del governo con il piano delle riforme da parte del Pd».

Nella sua prima intervista da presidente di Montecitorio, Gianfranco Fini, parla anche del ruolo del Parlamento, della Camera che dirige, per sollecitare una maggiore produttività («i parlamentari devono essere presenti e lavorare dal lunedì al venerdì, non tre giorni alla settimana»), ma anche per chiarire che «la politica deve avere dei costi, se vuole essere veramente efficace: il problema, il vero costo, che poi produce la "casta", è quello della improduttività. Il primo dei buoni esempi che devono dare i parlamentari è il dovere della presenza, ma essere in grado di adempiere bene al lavoro legislativo ha indubbiamente dei costi. Oggi gli italiani avvertono un gap di decisioni, di atti forti da parte dello Stato, ma il diritto- dovere di governare è speculare al diritto-dovere di controllo che il Parlamento deve esercitare sull'azione dell'esecutivo».

Presidente, lei dice di essere fiducioso sul dialogo istituzionale fra Veltroni e Berlusconi. Ci dica perché.
«Innanzitutto perché si asseconda una scelta degli italiani. Il voto ha dimostrato che c'è voglia di semplificazione e un grande bisogno di colmare un deficit, un gap, di cultura di governo. È stato maggiormente premiato chi si proponeva realmente come forza di governo, è rimasto senza rappresentanza chi lo era solo a parole».

Lei ha parlato di due condizioni che la fanno essere ottimista.
«La prima è il testo Violante, sul quale nella scorsa legislatura si è realizzata una convergenza bipartisan e che può essere una buona base di partenza. La seconda è che i programmi del Pdl e del Pd, sulle riforme, sono largamente convergenti. Sono due fatti che autorizzano fiducia».

Il dialogo è partito dai regolamenti parlamentari. Forse è un po' poco.
«Siamo all'inizio e l'argomento è comunque importantissimo. Migliorare in senso razionale l'attività delle Camere significa migliorare l'immagine delle nostre istituzioni, renderle più produttive, celeri. Mi auguro che il confronto possa estendersi al ruolo delle commissioni, che devono riacquistare una centralità, nel processo legislativo, che si è appannata con il tempo».

Lei è stato fra i promotori del referendum sulla legge elettorale. Lo considera ancora valido?
«È indubbio che si svolgerà nel 2009, a meno di cambiamenti della legge elettorale vigente. Ma è altrettanto indubbio che è cambiato lo scenario, l'ho detto anche al professor Guzzetta. Oggi la priorità sono le riforme del sistema e io considero le regole sul voto un problema successivo, spero che gli amici del referendum se ne rendano conto».

Lei parlava di un gap di decisioni forti: sono state prese e a Napoli siamo alla guerriglia urbana.
«Pensare che una democrazia non sia più tale quando fa ricorso all'uso legittimo della forza, per impedire manifestazioni non autorizzate, significa predicare al vento la cultura della legalità, del diritto e della convivenza civile. Su rifiuti e sicurezza si è superata la soglia: o si governano queste emergenze o viene meno il ruolo dello Stato. Stato non può essere solo il participio passato del verbo essere. Su tanti altri settori e argomenti la soglia non è ancora stata superata, ma siamo all'allarme rosso».

Nel giorno del suo insediamento lei ha promesso di essere il garante di tutti. È difficile spogliarsi dell'abito dell'uomo di parte?
«Difficile, ma doveroso. Del resto posso dire in coscienza di averlo già fatto come ministro degli Esteri: rappresentavo, o cercavo di farlo, l'intero Paese. Ma deve essere chiaro che il ruolo di garanzia non può essere meramente notarile: il presidente della Camera, come del resto hanno fatto i miei predecessori, ha il dovere di contribuire al dibattito politico e culturale del Paese. E questo è un ruolo cui non intendo rinunciare. Faccio solo un esempio immediato: la proposta di Raffaele Bonanni sulla partecipazione agli utili societari da parte dei lavoratori ritengo valga più di una riflessione passeggera».

Dal voto sono state tagliate fuori, senza acquisire rappresentanza parlamentare, molte forze della sinistra. Le dispiace, c'è una riflessione da fare?
«Le leggi elettorali non sono buone o cattive in sé, sono solo il termometro del livello di consenso del Paese. In Francia il Fronte nazionale è stato escluso dalla rappresentanza anche avendo consensi elettorali molto alti. Credo che il deficit di rappresentanza di una parte della società possa essere colmato proprio dal ruolo del Parlamento, che è il luogo principe per capire, ascoltare e farsi interprete delle proposte che arrivano dal tessuto sociale. E qui si ritorna al ruolo centrale delle commissioni, all'importanza delle audizioni, a un procedimento legislativo che non può essere solo calato dall'alto».

Lei è presidente della Camera, il suo amico Gianni Alemanno è sindaco di Roma. L'accreditamento culturale della destra italiana è completato?
«Ritengo sia un percorso esaurito, ormai siamo davvero in una fase post-ideologica».

Eppure è bastato ad Alemanno dire che Mussolini ha modernizzato il Paese per suscitare polemiche.
«In tutte queste polemiche c'è come sempre un mix di disinformazione e di malafede. Valutare la storia è compito degli storici. Il paradosso è che se si parla di Giolitti o di Garibaldi ci si appella agli storici, se si parla del Ventennio c'è subito chi attribuisce valenza politica a un giudizio storico. Il che non significa auspicare rimozione, oblio, ma semplicemente dire che la storia è dietro di noi».

Quando nascerà veramente il nuovo partito del centrodestra?
«È già nato nelle urne, ora si tratta solo di battezzarlo, stabilirne le regole di funzionamento. Ci sono delle resistenze delle nomenklature interne, sia in An che in Forza Italia. Ma sono ottimista perché c'è una doppia spinta: dall'alto, mia e di Berlusconi, e dal basso, quella dei nostri elettori».

Si è scritto che il «Secolo d'Italia» sta per chiudere. Vero?
«Certamente il Secolo non sarà chiuso, soprattutto per il contributo culturale che ha dato e continuerà a dare, ma non più come quotidiano d'area».

Marco Galluzzo
Corriere della Sera
25 maggio 2008

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