Intervento di Marco Perduca, senatore radicale eletto nelle liste del PD, tenuto al Senato il 14 maggio 2008 nel corso del dibattito generale sulla fiducia al governo Berlusconi
Signora Presidente, parlo a nome della delegazione radicale nel Gruppo del Partito Democratico, della quale fanno parte le senatrici Emma Bonino e Donatella Poretti, da questi banchi della sinistra estrema, eredi del radicalismo ottocentesco, ma eredi anche della destra storica, che nel Risorgimento ha guadagnato l'unità di questo Paese fino alla breccia di Porta Pia. Noi saremo parte della sinistra liberale, ma saremo anche una sinistra socialista, una sinistra laica e quindi finalmente - contrariamente a quanto ci è stato bombardato per due anni dalla stampa - la vera sinistra radicale.
È per me anche un onore parlare per la prima volta in questo Senato finalmente e legalmente costituito, a differenza di quello della XV legislatura quando otto senatori furono tenuti fuori dall'interpretazione di una legge, e anche per questo siamo arrivati alla fine anticipata di quella legislatura. Da sempre, per la XV legislatura, i radicali, per bocca di Marco Pannella, si sono dichiarati gli «ultimi giapponesi di Prodi», perché riconoscevano in quel Governo un'alternanza rispetto al suo Governo che per cinque anni, dopo grandi promesse, non aveva portato a casa una riforma liberale, una riforma liberista e non voglio dire una riforma libertaria.
Siamo stati anche gli ultimi giapponesi della legislatura perché avevamo capito che soltanto una durata piena di cinque anni avrebbe potuto consentire di portare a casa quelle riforme necessarie al Paese, che il Governo Prodi aveva iniziato a fare: aveva iniziato a mettere a posto i conti dello Stato, sicuramente con misure impopolari per non essere antipopolari nella sua politica; aveva avviato un lavoro di liberalizzazione, grazie al ministro Bersani, e con il ministro Emma Bonino (che oggi presiede quest'Assemblea) ha portato, come mai era accaduto nel mondo, il prodotto italiano in giro per i cinque continenti. Tutto questo non è stato portato a casa appieno perché è stato posto fine alla legislatura.
Siamo stati chiamati alle elezioni anticipate con molte parole d'ordine da persone che avevano fatto calcoli partitocratici ed avevano anteposto la propria convenienza a quella del Paese. Ebbene, osservando come sono disegnate questa ed anche l'altra Camera, si nota come alcuni abbiano sicuramente fatto male i propri conti. Non hanno, invece, fatto male i conti - e questo, signor Presidente del Consiglio, non c'è nel suo discorso malgrado abbia accennato ancora oggi ai costi della politica - i tesorieri di tutti i partiti politici, quelli che non hanno partecipato alle elezioni perché sapevano che comunque avrebbero goduto di altri tre anni dei cosiddetti rimborsi elettorali e tutti quelli che, pur avendo partecipato, non sono riusciti a portare in Parlamento i propri membri, ma hanno almeno raggiunto l'1 per cento tanto alla Camera quanto al Senato.
Questa è una truffa di Stato, questo è il problema principale dei costi della politica italiana, che garantisce la presenza di decine e decine di partiti politici trasformatisi in vere e proprie imprese economiche e finanziarie.
Se le sue, Presidente del Consiglio, non sono solo delle vaghe e vacue dichiarazioni contro i costi della politica, perché non iniziamo proprio da qui, rinominando innanzitutto quello che oggi viene definito un rimborso, mentre si tratta di un vero e proprio finanziamento elettorale? Noi sappiamo che i soldi non vengono dati in base a quanto è stato speso per la propaganda elettorale, bensì in base ai voti ottenuti. Ebbene, lo si chiami finanziamento elettorale. In questo modo ci si renderà conto di essere andati contro il referendum radicale del 1993 che oltre il 90 per cento degli italiani aveva sostenuto. Come prima misura, si abolisca il finanziamento pubblico dei partiti.
Il Paese è in ginocchio, ma il suo slogan di campagna elettorale, Presidente del Consiglio, era «Rialzati, Italia!». Ci era stato anche detto che eravamo all'interno di una vera e propria emergenza democratica. Ebbene, lei non ha fatto il minimo cenno al controllo della spesa pubblica; anzi, strade, case e ponti ci sono stati promessi, tra l'altro andando a recuperare un sistema di produzione energetica, il nucleare, che quando potrà entrare in funzione, tra una decina d'anni, avrà a che fare con la finitezza dell'uranio in questo mondo. Si tratta quindi di politiche miopi, che non possono assolutamente permettere a questo Paese di rimettersi in piedi.
L'emergenza democratica in effetti esiste. Noi siamo stati nominati e l'80 per cento dei membri di questo Parlamento era già noto al momento in cui sono state chiuse le liste elettorali. I cittadini sono stati chiamati a ratificare le scelte dei capi di partito. Questo è uno dei tanti aspetti minori di vera e propria emergenza democratica, emergenza democratica che risiede nell'emergenza sociale derivante dalla qualità della giustizia di questo Paese, che, con le sue misure di sicurezza su tutto e per tutto, consegnando qualsiasi fenomeno o espressione di interazione umana (che sia l'immigrazione o l'assunzione di sostanze stupefacenti), al diritto penale sicuramente non viene aiutata. Il nostro Paese ha oltre 10 milioni di processi in corso, tra civili e penali, la cui durata media è di sette anni e viene definito dalla Corte europea dei diritti umani un delinquente abituale. Questa è la vera emergenza democratica di questo Paese.
Tutto ciò è assente dal suo discorso, signor presidente Berlusconi, e per questo motivo non possiamo darle la fiducia.
In quest'Aula e nel dibattito svoltosi alla Camera è stato ripreso più volte il tema della nuova aria di dialogo che spirerebbe, dei toni che non costituiscono una contrapposizione ideologica, ma qualcos'altro. Bene, lei sa sicuramente molto meglio di tanti altri, fin dal 1994, quando entrò in politica, che i radicali non oppongono le proprie ideologie (che non hanno), ma si battono cercando alleanze laiche su obiettivi precisi e puntuali, ossia riforme liberali di recupero della democrazia, che quotidianamente viene erosa e distrutta non soltanto da tutto ciò che ho sottolineato in precedenza, ma anche perché le istituzioni che dovrebbero garantirla si mettono quotidianamente al di fuori della legge.
Ebbene, questo dialogo sembrerebbe iniziare sul federalismo. Anche oggi abbiamo sentito parlare spesso dagli amici della Lega della necessità di arrivare a un federalismo fiscale. Ma la vera questione della riforma relativa al federalismo consiste nell'avvicinare l'elettorato passivo all'elettorato attivo. Prima ancora di controllare i conti dello Stato, dei Comuni, delle Regioni e delle Province, bisogna che renda conto chi viene eletto, tanto alla Camera quanto al Senato, e, per noi che siamo federalisti all'americana, anche il Governo. Questo è lo spazio che va recuperato. Oggi, lo abbiamo già detto prima, si ratificano soltanto le nomine dei parlamentari grazie al sistema elettorale che voi avete approvato. Un recupero dello spazio tra elettorato attivo ed elettorato passivo è ciò che deve ottenersi con il vero e proprio federalismo, quello all'americana.
Un federalismo in Italia naturalmente non può esistere se non esiste un federalismo in Europa e nel suo discorso niente di tutto questo si rintraccia, ma soltanto un vago accenno alla necessità di essere più forti all'interno del continente europeo.
Ebbene, il suo Governo non si candida assolutamente a recuperare quelli che sarebbero i princìpi fondamentali di un'Europa pienamente politica e non della socialburocrazia che è oggi: i princìpi del Manifesto di Ventotene, quelli per cui alla sovranità assoluta nazionale si contrappone il diritto internazionale, le norme che negli ultimi sessant'anni sono state adottate dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni regionali.
Il suo Governo non ha detto una parola relativamente all'ampliamento dell'Unione Europea, che deve sicuramente includere i Balcani, ma deve guardare anche alla sponda orientale del Mediterraneo; ciò significa Turchia e Israele immediatamente nell'Unione Europea. Un federalismo, quindi, come portatore di pace in una zona che, invece, continua a essere al centro di conflitti interni e internazionali. Le uniche parole che lei ha voluto spendere su Israele, signor Presidente del Consiglio, sono state relative alla necessità di difendere quello Stato - e su questo siamo tutti pienamente d'accordo - ma di riconoscere al contempo una sovranità nazionale assoluta ai palestinesi. Non è così che si può governare quel conflitto.
Signor Presidente, quello che è necessario è quindi una vera e propria rivoluzione liberale che lei nel 1994 portò avanti nella sua prima campagna elettorale. Di tutto quello, anche di un minimo afflato retorico relativamente al liberalismo, nel suo discorso di ieri e di oggi non è rimasta assolutamente traccia. Noi da questi banchi della sinistra estrema vigileremo sistematicamente e quotidianamente affinché un minimo di riforme liberali, di Stato di diritto, di giustizia e di democrazia possano essere portate a casa nei prossimi cinque anni.
(Applausi dal Gruppo PD).
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Francis*PAC
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