L'ultima maschera del nuovo statista
di EUGENIO SCALFARI
COMINCIO questa mia rassegna settimanale dei principali fatti e misfatti politici con una citazione. E' tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America" scritto due secoli fa e ormai diventato un classico. L'ha ricordato Umberto Eco nella sua "bustina" sull'Espresso di venerdì.
"Nella vita di ogni popolo democratico c'è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell'abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all'alto può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all'universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo". Aggiungo per doverosa completezza l'avvertenza che spesso compare in certi film che trattano problemi e casi di stretta attualità: "Ogni riferimento a personaggi reali è infondato o puramente casuale".
Abbiamo assistito ed assistiamo, dopo la vittoria del centrodestra ad una profonda trasformazione del leader di quella parte politica, da pochi giorni asceso per la quarta volta in 14 anni alla presidenza del Consiglio. Tanto è stato demagogico e iracondo nelle sue precedenti apparizioni e tanto appare oggi uno statista pensieroso del bene comune. Molti dubitano della sincerità di questa trasformazione.
Un campione intervistato da "Sky Tg24" su questo tema, rispondendo alla domanda "è sincero o è bugiardo?" ha dichiarato per l'82 per cento "è bugiardo". Una parte consistente del campione è formata evidentemente da persone che appena pochi giorni prima avevano votato per lui. Ciò rende estremamente pertinente l'analisi di Tocqueville.
Ma io non credo - e l'ho già scritto domenica scorsa - che Silvio Berlusconi, bugiardo per antonomasia, in questo caso menta. E' un grande attore e un grande venditore del suo prodotto, cioè di se stesso, e come tutti i grandi attori si immedesima completamente con ciò che dice. Nel momento in cui decide di assumere e interpretare il personaggio dello statista, quella maschera diventa vera, diventa realtà, l'attore si comporta da statista e lo è. Quindi va preso sul serio. Del resto in politica le parole sono pietre ed è precluso fare il processo alle intenzioni.
Tuttavia la memoria delle maschere assunte in precedenza rimane e deve rimanere perché l'attore può cambiar maschera a suo piacimento e in qualunque momento se gli ostacoli che incontra lungo la strada si rivelino troppo difficili e troppo ostici ai suoi interessi e alle sue ambizioni. Il grande attore non ha convinzioni proprie e una propria identità: si immedesima nella parte e quella è la sua forza. Finita una recita ne comincia un'altra; talvolta interpreta due parti e due personaggi diversi e addirittura contrapposti. In queste situazioni pirandelliane Berlusconi ci si ritrova molto bene e tutti noi, cittadini di questo Paese, dobbiamo ricordarcelo.
Ho detto che il grande attore non ha convinzioni proprie o, se pure ne ha, esse sono irrilevanti di fronte alla sua personalità recitante. Ma quando la recita è finita le sue pulsioni istintuali affiorano e determinano i suoi comportamenti. Abbiamo imparato a conoscerle, le pulsioni istintuali di Berlusconi che è sulla scena nazionale da ormai trent'anni. Il neo-statista va preso sul serio e gli si può e anzi gli si deve fare un'apertura di credito; del resto le elezioni le ha vinte e la sua legittimità è piena e fuori discussione. Non altrettanto la sua tempra morale e politica. Perciò con lui la disponibilità deve andare di pari passo alla memoria vigile e al riscontro costante tra parole e fatti, tra intenzioni e realizzazioni.
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La sua campagna elettorale e quella dei suoi alleati Bossi e Fini è stata costruita soprattutto sul tema della sicurezza. Gli errori del centrosinistra su questo tema sono stati molti e gravi: la maggioranza si è più volte sfaldata, i dirigenti della sinistra radicale hanno frequentemente bloccato provvedimenti di energica prevenzione e di necessaria repressione predisposti a suo tempo dal ministro dell'Interno Giuliano Amato in accordo con Prodi. La magistratura, le sue lentezze e i suoi riti hanno fatto il resto e la delinquenza ha goduto di una diffusa impunità. Non tale tuttavia da rappresentare una minaccia nazionale. Se essa è balzata al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani ciò è avvenuto perché la percezione di quella minaccia e la paura che ne è derivata sono state cavalcate senza risparmio e senza ritegno dai triumviri del centrodestra.
Cecità di fronte al fenomeno della micro-delinquenza da parte della sinistra radicale, eccitamento della paura da parte della destra: in queste condizioni i richiami alla ragione e al senso di responsabilità dei democratici sono caduti nel vuoto.
Immediatamente dopo la vittoria elettorale di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te, del giustizialismo di quartiere. Nelle province di camorra la criminalità organizzata si è trasformata in giustizialismo di piazza: la manovalanza camorrista ha preceduto la polizia e i carabinieri, l'assalto ai campi rom è venuto prima delle leggi in corso di redazione da parte del nuovo ministro dell'Interno il quale, in accordo con il sindaco di Milano e con quello di Roma, ha anche istituito la nuovissima figura del "Commissario ai rom".
Che cosa debba fare un commissario addetto ad un'etnia è un mistero, ma una cosa è certa: si tratta di un'inutile e pericolosissima criminalizzazione d'una collettività.
Maroni si affanna da qualche ora a ridimensionare gli aspetti abnormi di queste sue iniziative strombazzate a pieno volume durante la campagna elettorale. Il reato di immigrazione clandestina, che costituiva uno dei punti forti della predicazione leghista, ha dovuto essere depennato di fronte alle obiezioni del capo dello Stato e dell'opinione pubblica europea, ma resta un contesto non solo repressivo ma persecutorio che eccita ancora di più la gente di mano e il teppismo della destra estrema.
L'altro ieri a Napoli uno stuolo di mamme scarmigliate e urlanti voleva scacciare alcuni handicappati-rom che per una notte erano stati ricoverati in un convitto dopo l'incendio del campo di Ponticelli. "Bruciarli no, ma scacciarli sì e subito" urlavano quelle mamme ed una in particolare che era la più agitata. Si è poi saputo che è la moglie del boss camorrista di quel quartiere.
A questo siamo arrivati, ma c'è una logica nella follia d'aver cavalcato la paura fino a questo punto: poiché miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico interno sul quale scaricare le tensioni e doveva essere un nemico capace di concentrare su di sé l'immaginario della nazione. Ora quell'isteria dell'immaginario ha preso la mano da Napoli a Verona e può dar luogo a conseguenze assai gravi.
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Walter Veltroni ha fatto bene ad incontrare Berlusconi a Palazzo Chigi venerdì mattina. Dal resoconto fatto dallo stesso segretario del Pd risulta che abbiano toccato vari e importanti argomenti: dalle riforme istituzionali da fare insieme ai programmi dei due schieramenti che restano invece, come è giusto che sia, fortemente conflittuali.
In particolare hanno parlato di Rai (qui la conflittualità è massima) di sostegno dei salari (anche su questo punto non c'è stato accordo) di legge elettorale europea (istituzione d'una soglia di sbarramento del 3 per cento).
Non si è parlato invece di sicurezza, per riguardo (così è stato detto) alle prerogative del Capo dello Stato cui spetta di controfirmare i decreti e i disegni di legge.
A noi non sembra una buona cosa avere escluso dall'agenda di questo primo incontro il tema della sicurezza. Al dà degli specifici provvedimenti di prevenzione e di repressione che si dovranno adottare, resta una visione d'insieme che riguarda - come scrive Tocqueville nella citazione sopra riportata - "il gusto di civiltà e di libertà".
La nostra visione di cittadini democratici mette strettamente insieme la legalità, la protezione dei cittadini, la certezza delle pene, la repressione rigorosa della giustizia di strada e delle ronde "volontarie", l'opposizione più ferma ad ogni criminalizzazione di etnie e di collettività.
Questo avremmo voluto che il segretario del Pd dicesse a titolo di premessa nel suo primo incontro con il presidente del Consiglio. Sappiamo che questa visione e questi valori appartengono interamente al patrimonio etico-politico di Veltroni e del partito da lui guidato. Vogliamo sperare che siano condivisi anche da Silvio Berlusconi nella sua nuova veste di statista. Ma se ci si deve impegnare in una politica di dialogo istituzionale, questi valori non possono essere sottaciuti e dati per noti; vanno viceversa proclamati e la loro condivisione va posta come premessa e condizione indispensabile al dialogo. Se non fossero condivisi e tradotti in atti legislativi e in linee guida amministrative conformi, il dialogo non potrebbe e non dovrebbe evidentemente aver luogo.
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Poche altre cose vogliamo aggiungere a proposito delle riforme istituzionali che maggioranza ed opposizione dovranno portare avanti insieme.
Ben venga il riconoscimento da parte di Berlusconi del governo-ombra come interlocutore del governo governante. Ma non c'è soltanto il Partito democratico all'opposizione, sicché se si vorrà formalizzare questa novità bisognerà volgere al plurale quella parola perché tutte le opposizione hanno il diritto di interloquire. Oppure non si formalizzi nulla e si aumentino piuttosto i poteri di controllo del Parlamento in pari misura ai maggiori poteri che è giusto riconoscere al presidente del Consiglio, capo dell'Esecutivo.
E' passato quasi sotto silenzio (se si esclude il lucido articolo di Ignazio Marino su "Repubblica" di venerdì) il fatto che nel nuovo governo non esiste più il dicastero della Sanità, derubricato come parte del dicastero del "Welfare" affidato ad un sottosegretario o vice ministro che sia.
La derubricazione d'un ministero le cui attribuzioni sono sotto l'usbergo della Costituzione sotto forma del diritto alla salute di tutti i cittadini, è incomprensibile e inaccettabile. Capisco che la derubricazione possa esser gradita ai presidenti delle Regioni più ricche ma proprio per mantenere la parità di prestazioni sanitarie secondo il bisogno e non secondo il reddito che la Costituzione sancisce, non si può abolire il ministero della Salute e disossare il Servizio sanitario nazionale.
Questa materia riporta l'attenzione sul federalismo fiscale, altro tema delicatissimo che fa parte di quelle riforme da fare insieme tra maggioranza ed opposizione.
Bossi ha programmato da tempo la sua secessione dolce del Lombardo-Veneto basata su un federalismo fiscale spinto all'estremo e Berlusconi, Tremonti e Fini gli hanno dato carta bianca. Dove ci può portare questo salto nel buio in termini politici ed economici è ancora del tutto ignoto. I primi studi effettuati da economisti indipendenti mostrano squilibri fortissimi tra Nord e Sud, tra regioni ricche e regioni povere, tra entrate tributarie incassate e fonti di reddito che le generano.
Il federalismo fiscale si ripercuote anche su alcuni principi costituzionali, sul Senato federale, sulla composizione e i poteri della Corte Costituzionale. Se non ci sarà accordo su queste complesse e delicatissime questioni il governo dovrà procedere da solo e poiché non dispone della maggioranza necessaria per leggi di natura costituzionale dovrà ricorrere ad un referendum che spaccherebbe il Paese in due.
Ci pensi bene il neo-statista di Palazzo Chigi. Noi ci auguriamo che la sua sopravvenuta saggezza gli porti consiglio e gli dia la forza di far marciare i suoi alleati in accordo con lui anziché lui in accordo con loro. In caso contrario la strada sarà tutta in salita e non sarebbe un bene per un Paese che ha bisogno di crescere crescere crescere. Crescere soprattutto moralmente, signor presidente del Consiglio, perché questa è ormai diventata la nostra principale emergenza.
Repubblica
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