venerdì 31 dicembre 2010

Militare ucciso in Afghanistan: «Hai visto nonno? Anch'io in guerra»

Il racconto di Matteo, alpino per tradizione di famiglia: «Arrivano i bambini,
ci circondano, hanno fame»

MILANO - «Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere
l'ultimo, ma non ci pensi». Così Matteo Miotto, 24 anni, l'alpino ucciso in
Afghanistan, raccontava la tensione delle perlustrazioni con il «Lince» nella
valle del Gulistan in una toccante lettera pubblicata dal sito on line del
Gazzettino, poche settimane dopo l'agguato in cui, il 9 ottobre, erano rimasti
vittime quattro alpini del 7° reggimento di Belluno. «La testa è troppo
impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo - spiegava Matteo -,
finalmente siamo alle porte del villaggio... Veniamo accolti dai bambini che da
dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca
ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame...». Nella lettera l'alpino,
originario di Thiene, ringraziava in Italia quanti «vogliono ascoltare i
militari in missione, e ci degnano del loro pensiero - proseguiva - solo in
tristi occasioni, come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo
il loro dovere». La missiva era stata accompagnata sul sito del quotidiano
veneto da una foto di Matteo sulla torretta di un blindato, con in mano la
«sua» bandiera tricolore con la scritta «Thiene» e le firme degli amici.

ALPINO COME IL NONNO - In un'intervista telefonica in occasione della festa
del 4 novembre, Miotto aveva raccontato al Giornale di Vicenza: «Mi ricordo
quando mio nonno mi parlava della guerra, "bruta cosa bocia (ragazzo, ndr),
beato ti che non te la vedarè mai". Ed eccomi qui, nella Valle del Gulistan,
Afghanistan centrale. Se potessi ascoltarmi ti direi: "Visto, nonno, che te ti
si sbajà"». «Sono entrato nel corpo degli alpini nel 2006 - aveva spiegato
Miotto - appena terminate le scuole superiori, per fare un'esperienza, anche
sulla scia dell'esempio di mio nonno, alpino anche lui. Poi mi sono
appassionato al lavoro, ho sentito che potevo dare qualcosa e così sono
rimasto. Appena ho saputo della missione ho dato la mia disponibilità e ora
sono qui, nella valle del Gulistan». «Quando non siamo fuori in perlustrazione
- aggiungeva - siamo nella base e possiamo chiamare a casa o utilizzare il pc.
Ovviamente mi mancano la mia ragazza, gli amici, le mie montagne e i miei bar,
ma sono convinto della scelta fatta. Ho con me un ricordo dell'Italia, una
bandiera con le firme degli amici più stretti».

con corriere.it

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