lunedì 25 ottobre 2010

La Stampa: Il rispetto del lenzuolo bianco

MARIO CALABRESI
Esiste un gesto antico di pietà che mi torna in mente continuamente in questi
giorni, è quello di coprire il corpo di chi è morto in un luogo pubblico. Lo si
fa con un lenzuolo bianco, una coperta, un qualunque indumento che protegga
almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un
marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo.

È un gesto codificato dal mondo greco, almeno venticinque secoli fa (anche
Socrate si copre il volto mentre muore), e non serve soltanto a proteggere i
morti dallo sguardo dei vivi ma anche noi stessi, i vivi, dalla vista della
morte. È il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e
della capacità di fermarsi.

Oggi si è fatta strada in Italia una strana concezione dell'informazione che
si potrebbe sintetizzare in un gesto: quello di sollevare il lenzuolo e
spingere tutti a fissare quello che c'è sotto. Molti restano incollati all'
immagine terribile, altri sfuggono, alcuni cominciano a provare disgusto.

Ieri mattina - grazie al lavoro dei nostri giornalisti - abbiamo avuto gli
audio degli interrogatori di Avetrana, le voci di Michele e Sabrina Misseri,
con la confessione dettagliata e tormentata da parte dello zio dell'omicidio di
Sarah Scazzi. Non era mai capitato di avere la possibilità di ascoltare in
tempo reale un interrogatorio, divulgato fuori da ogni regola prima ancora dei
rinvii a giudizio e di qualunque decisione della magistratura.

Ci siamo chiesti cosa farne e se metterli subito sul sito web, sicuri di fare
un record di contatti. Ne abbiamo discusso e abbiamo deciso di buttarli, perché
non aggiungevano nulla a quello che avete già letto fino a oggi, perché non
servivano a chiarire nulla e perché potevano essere utili solo a solleticare le
morbosità, a infilare la testa più in fondo nel pozzo.

Ne abbiamo avuto conferma poche ore dopo, mentre stavo cominciando a scrivere
queste righe, quando una trasmissione televisiva per famiglie - pagata con il
canone e in orario pomeridiano - ha cominciato a mandarne in onda frammenti
audio accompagnandoli con un dibattito osceno e surreale.

Chiariamo subito un punto: queste voci non raccontano niente di diverso o di
nuovo rispetto a quanto è stato scritto finora. Ma allora - si potrebbe
obiettare - dov'è il problema? Credo che esista una sostanziale differenza tra
il riportare un fatto, il raccontarlo mettendolo nel suo contesto esatto o
invece nel gettarlo in faccia a chi ascolta senza alcuna mediazione. E' in
quella differenza che è nato il giornalismo, che ha trovato un senso e una
ragione d'esistere.

Ci sarà un motivo se da decenni all'inizio di un processo la Corte si ritira
per decidere se possono entrare i fotografi (in caso di decisione negativa
negli Stati Uniti entrano in azione i disegnatori) o le telecamere in Aula.
Succede perché la delicatezza di un caso o la necessità di frenare una deriva
emozionale può richiedere attenzioni superiori.

Qui da noi, da tempo ormai, è saltato tutto (questo dibattito in parte lo
abbiamo già fatto nei mesi scorsi quando era in discussione la legge sulle
intercettazioni) e così si trovano disponibili le voci dei presunti assassini
mentre vengono interrogati, come le intercettazioni telefoniche un momento dopo
essere state registrate.

Per anni il nostro mestiere è stato quello di cercare di ottenere una notizia
in più, la frase di un interrogatorio, il racconto del tono di una voce.
L'imperativo - sano e comprensibile - era quello di pubblicare tutto quanto era
possibile raccogliere. Era una sfida continua con chi invece le cose doveva
proteggerle e non divulgarle perché questo gli imponevano ruolo e mestiere. Poi
qualcosa si è rotto: la porosità attuale, in cui si è inondati di carte e ora
anche di audio, richiede un comportamento nuovo, ci impone di scegliere e anche
di buttare via. Non è qualcosa che strida con il compito di un giornalista, se
il motto stampato sulla prima pagina del New York Times («Tutte le notizie che
vale la pena pubblicare») prevede che ci sia una selezione che scarti ciò che
non vale. Dobbiamo continuare a raccontare e a svelare senza sosta, dandovi
ogni elemento utile a comprendere (come facciamo anche oggi con i due articoli
sul giallo di Avetrana), ma rifiutando di farci casse di risonanza di ciò che
trasforma noi e voi in «guardoni».

Proprio in America mai si sognerebbero di divulgare l'audio di un
interrogatorio, anche se hanno messo da tempo in rete le telefonate dell'11
settembre, ritenendo che questo servisse a ricordare il dramma, ma mai è stato
mostrato un solo cadavere dei morti delle Torri. Perché non si tratta di
censurarsi, ma di valutare e di non far prevalere soltanto il criterio degli
ascolti, del numero di copie vendute o dei click su internet.

Lo stesso accade appunto con le immagini: certe foto di morti - da Mussolini
ai coniugi Ceausescu -, così come alcuni filmati - penso alla bava agli angoli
della bocca di Forlani durante gli interrogatori di Mani Pulite - sono state
determinanti per un passaggio storico, hanno segnalato una rottura. Così le
immagini di un terremoto hanno il compito di far capire le dimensioni di una
tragedia ma indugiare sui cadaveri, mostrare brandelli di corpi, volti
maciullati non serve a nulla, se non a trasformarci in megafoni dell'orrore.

Sono convinto esista un limite e ieri passava per la diffusione di quei file
audio, per questo penso sia tempo di tornare a rispettare quel lenzuolo bianco.
Altri lenzuoli invece il giornalismo deve continuare a sollevare e sono quelli
che rivelano gli scandali, le corruzioni e le criminalità, che fanno meno circo
e meno audience e amerebbero il silenzio.

Nessun commento:

Related Posts with Thumbnails