sabato 4 settembre 2010

Festival Cinema Venezia: Coppola: noi matti dello showbiz (ma non ce l’ho con la tv italiana)

La regista applauditissima
per "Somewhere": Telegatti
come Las Vegas

La solitudine dei «figli di», lo straniamento di chi ha passato più tempo in albergo che a casa, le vite sopra le righe di chi è abituato a stare perennemente sotto i riflettori. Con Somewhere, ieri al Festival in contemporanea con l'uscita nelle sale italiane (250 copie con il marchio Medusa), Sofia Coppola torna a parlare di sé, di un mondo dello spettacolo vacuo e scintillante, di artisti, come il protagonista Johnny Marco (Stephen Dorff), che scoprono tardi il significato dell'essere padri: «La storia non parla solo di me, ma certo contiene episodi che si rifanno alla mia esperienza personale, ai ricordi di quando accompagnavo mio padre in giro per il mondo, alla sensazione di stargli accanto sentendo che c'erano tante persone attratte dalla sua arte, all'entusiasmo che provavo entrando nel mondo degli adulti». La figlia di Johnny Marco si chiama Cleo (Elle Fanning), è una bambina che sta per diventare ragazza, in bilico tra la felicità di un'esistenza insolita e il vuoto di genitori spesso assenti: «Il personaggio è ispirato a una mia amica, ma è chiaro che, in tutto il mio lavoro di sceneggiatrice e di regista, il collegamento personale è forte». Tra l'altro Somewhere è più che mai un'opera di famiglia dove hanno lavorato, come produttori, sia Francis Ford Coppola che il figlio Roman: «Mio padre - spiega Sofia con il suo tono sommesso da ragazza beneducata - mi ha sempre spinto a girare film anche piccoli, a patto che però siano davvero miei e indipendenti».

Il viaggio di conoscenza che metterà Johnny Marco davanti alla realtà della paternità, inizia nel celebre Chateau Marmont di Los Angeles e comprende una variopinta tappa italiana, con il protagonista coinvolto sul palcoscenico dei Telegatti, Simona Ventura che lo presenta, Nino Frassica che ha fa la spalla, Valeria Marini che gli danza intorno intonando una canzonetta senza senso. L'Italia della tv più vista, ama anche più becera: «Molti anni fa ho partecipato a un'edizione dei Telegatti, è un mondo che conosco e che non considero troppo diverso da quello di certi show di Las Vegas, è il segno di una globalità che ci riguarda un po' tutti. Ho voluto metterlo in scena per sottolineare il contrasto con quello di una ragazzina come Cleo». Certo, lo spaccato è tutt'altro che edificante, così come l'assalto dei cronisti e la pioggia di domande peregrine: «Amo la cultura italiana - ribatte Coppola -, quando si arriva in un Festival è sempre così, ci sono tante persone che ti accolgono e ti chiedono cose, è il cinema che è fatto così, ovunque. Non volevo esprimere un giudizio specifico sull'Italia». Durante lo show Maurizio Nichetti riceve un premio, e Laura Chiatti, nella notte che segue, è una conquista passeggera di Johnny Marco: «Li ho voluti per rendere più autentica quella parte del film, specialmente pensando al pubblico italiano che vedrà Somewhere. La tv in Italia è peculiare, diversa dalla nostra, sopra le righe. Trovarsi, da stranieri, in quel tipo di contesto, rende ancora più intenso il legame tra il padre e sua figlia». I giornalisti, comunque, «hanno una funzione importante, possono aiutare un piccolo film a raggiungere un pubblico grande».

Anche Los Angeles ha le sue manie, ma con le dovute differenze: «È una città un po' dura, un po' spigolosa, può trasmettere quella sensazione di estraneità. Ci ho vissuto negli Anni 90, allora tutto era più innocente, forse perché era prima che dilagassero i tabloid e le feste piene di celebrità. Allo Chateau Marmont, per esempio, i paparazzi non erano ammessi, e i reality-show ancora non esistevano. Oggi invece ce ne sono in abbondanza, anzi, ho l'impressione che la gente stia al check-in solo per essere fotografata.

Lo Chateau sembrava un mondo privato, adesso, invece, è diventato il fulcro di quel tipo di cultura pop». Nel finale, sulla faccia stropicciata di Stephen Dorff, finalmente sceso dalla sua Ferrari nera, appare un sorriso che significa cambiamento, fine di quell'equilibrio precario così noto a chi sceglie il mestiere dell'attore: «Quando reciti in un film la troupe diventa la tua famiglia e quando tutti vanno per la loro strada, ci si sente soli, con niente da fare. È capitato anche a me, infatti, appena finito Somewhere, ho detto a Sofia "se mi prendi per un altro film, fallo più lungo, così mi sentirò meno solo"».

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